27 feb 2013

STORIA DELLO STATO DI CACANIA


photo by pierperrone


Quando l'ultimo elettore mise la sua pallina nell'urna il silenzio si fece pesante.
Tutta la seduta si era svolta in un clima di grande tensione, come accade sempre quando si scrive una pagina di storia. 
La fatica di vivere momenti come quelli scava i volti, serra i denti sotto le mascelle che si fanno dure come pietre, i sorrisi si affilano come coltelli, le risate, quando non si possono proprio trattenere, fanno il rumore che fanno le bombe.
Il più esplosivo è il silenzio, però.
E' deflagrato quando l'ultimo voto è stato inserito nell'urna.

L'esito di quella votazione parlamentare è stato a suo modo una svolta, nella storia di quella nazione.
Il governo non riuscì ad essere formato.
Le grisaglie dei parlamentari, sudate per la palpabile emozione che aveva animato quei corpi grassi e poco avvezzi all'azione ed alle grandi decisioni, all'improvviso, dopo che la voce dello speaker cessò di rimbombare per le volte delle sale del grande palazzo pubblico, gelarono.
I volti si fecero di pietra.
Cerei, gli occhi si sgranarono in sguardi perduti.
Le mani si contorsero in gesti di rappresa disperazione.
Il destino ora, era stato appena proclamato, si doveva compiere fino in fondo.
Il Paese non aveva un nuovo governo.
E con quella mancata formazione, con quella deliberazione funesta, veniva a compiersi la condizione prevista  dalla legge di dissoluzione nazionale approvata, come ultimo atto, dal governo appena scaduto, l'ultimo governo in carica nel Parlamento dello Stato di Cacania.

Le piazze oggi sono ancora piene dei resti delle manifestazioni di giubilo che seguirono alla votazione di cui abbiamo appena parlato.
Bandiere stracciate, aste spezzate, insegne del potere bruciate, dove una volta c'erano statue inneggianti al potere, ora ci sono macerie, forme metalliche ammaccate e mozze, pietrame informe.
La furia del popolo delle cavallette che aveva invaso le piazze della capitale di Cacania aveva distrutto tutto.
Automezzi militari fumanti erano accartocciati al fianco di autovetture abbandonate in balia della furia distruttrice.
I portoni dei palazzi governativi erano sfondati.
Il colore fuliginoso degli incendi aveva coperto le pareti prima candide e ben dipinte.
Le strade ora erano deserte, come se un pifferaio magico le avesse disinfestate da quella massa animalesca che aveva divorato tutti i segni della civiltà che pure aveva dato ampio lustro internazionale allo Stato di Cacania.
Nè un uomo, nè una donna, per strada.
Non un canto di usignolo, non un volo di colombe.
Non la voce di un bimbo, nè la malinconia di un passante.

Il voto era stato preceduto da alcune giornate di trattative convulse.
Il vecchio premier, un anziano professore che aveva dovuto prendere a reggere le sorti del paese a causa di alcuni scandali che avevano falcidiato la classe politica al potere eletta dal popolo di Cacania secondo i sacri riti della democrazia allora in vigore, non aveva retto alla fatica.
O forse si era reco conto che non c'era più niente da fare.
Era restato solo a reggere il governo, dopo che i suoi ministri, uno ad uno, avevano preferito rassegnare le loro irrevocabili - così le avevano definite - dimissioni.
Più che dimissioni quelle erano una fuga vera e propria, dopo che alcuni sottosegretari erano stati trovati morti e quelle morti, in tutti i casi, erano già sei o sette, erano state provocate secondo misteriosi cerimoniali di tortura, solo così si possono definire quegli scempi su miseri corpi umani, che erano stati così efferati che persino nei rapporti delle polizie criminali si era dovuto ricorrere agli omissis e comunque quei rapporti, per debita prudenza, erano stati segretati per non essere resi pubblici neanche in forma incompleta.
Quando il primo ministro si rese conto di essere rimasto solo, l'ultimo, la vittima predestinata, l'agnello sacrificale, il capro espiatorio, compose il testo di quella strana legge bifronte.

"Con i poteri straordinari dell'amministrazione di fatto del potere politico dello Stato di Cacania, che mi sono stati conferiti dalla speciale situazione di tragedia in cui è venuto a trovarsi il Paese in queste ore, io, presidente del consiglio dello Stato di Cacania, promulgo l'ultima legge del Parlamento.
I deputati eletti a suffragio universale ed i senatori a vita cui la carica è stata conferita sena potere di dimissioni, sono chiamati, entro tre giorni da oggi, ad esprimersi sulla seguente alternativa.
Con voto segreto da esprimere con il ricorso al metodo della palline bianche o nere, sarà presa la decisione di nominare - oppure di non nominare - un nuovo governo.
Se le palline di colore nero che saranno depositate nell'urna saranno in numero superiore a quelle bianche, gli elettori avranno deciso che lo Stato di Cacania non avrà più un nuovo governo a rappresentarlo di fronte al Polo.
Se le palline nere saranno in numero superiore a quelle di colore bianco, lo Stato di Cacania si scioglierà definitivamente ed ogni vincolo sociale ed ogni situazione di diritto sarà sciolto per sempre senza più alcuna possibilità di ricostituzione.
Se gli abitanti dell'attuale Stato di Cacania volessero decidere di costituirsi nuovamente in uno Stato sovrano dovranno procedere alla indizione di apposite assemblee popolari che si daranno apposite e specifiche regole di funzionamento, finalizzate al miglio funzionamento in vista dello scopo prefissato.
In ogni caso, il nome di Cacania verrà cancellato dagli archivi ed albi pubblici del disciolto Stato, affinchè non resti a memoria detto nome.
Resta deciso che il nome di Cacania non potrà più essere usato per la denominazione di un altro Sato dopo la predetta cancellazione.
Visto, firmato e sottoscritto
Il presidente del consiglio dello Stato di Cacania".

L'ultima pallina nera, cadendo nell'urna, fece rumore.
Come un detonatore, aveva innescato il rombo del silenzio che si precipito sull'Assemblea che aveva, ancora inconsapevolmente, dato che il risultato non era ancora stato promulgato, deciso di non nominare un nuovo governo.
La voce dello speaker era stata querula, quando aveva letto il risultato.
Nei bagni, un onorevole si era impiccato.
Nelle sue mani aveva ancora una copia dell'ultima legge del presidente del consiglio, su cui aveva aveva scarabocchiato qualcosa di incomprensibile vergato con una calligrafia tremolante ed incerta.
Nelle sue tasche fu trovata dal personale di servizio e dalla polizia una fotografia di una ragazza nuda con un numero di cellulare, nei cassetti della sua scrivania nello studio a lui destinato nel grande palazzo del Parlamento furono rinvenute alcune riviste politiche, un giornale di annunci aperto alla pagina delle offerte di massaggi ed una serie di lettere commendatizie.
Il fuggi fuggi fu immediato, quando la voce del ritrovamento del corpo si sparse per i corridoi.
Non rimase nessuno.
Solo il presidente del consiglio, dopo che ebbe licenziato lo speaker rimasto ammutolito.

L'ultimo uomo di Stato, l'ultimo rappresentante ufficiale dello Stato di Cacania, cominciò, con lentezza esasperante, a spogliarsi degli abiti di scena, uno ad uno.
Mentre cerava di ripiegarli ordinatamente, un movimento maldestro fece rovesciare la piccola piramide che andava formandosi sul piano della stretta sedia di servizio.
Nudo, andò dinanzi alla telecamera che aveva ripreso quell'ultima decisiva riunione parlamentare che, ora, alla fine, andava trasformandosi in un mesto funerale di Stato.
Il funerale dello Stato di Cacania.
Naturalmente.
Una volta che fu completamente nudo, l'ex primo ministro cominciò ad allontanarsi cercando l'uscita in fondo al lungo corridoio.
Quando la trovò, dopo un breve pellegrinare, varcò con indecisione la soglia.
Gettò uno sguardo fugace verso l'interno.
Poi si voltò e si offri, così, nudo, alla folla che si accalcava nella grande piazza.
Non si sa se fu per la sorpresa, oppure perchè non fu riconosciuto, privo delle insegne del potere, o se fu per il ribrezzo che provocava il corpo nudo di un povero vecchio , ma potrebbe anche essere stato uno strano ed imprevedibile sentimento di pietà, ma questo è più improbabile, perchè si sa, una folla non prova pietà, semmai ferocemente, prova eccitazione e rabbia, comunque sia, saranno i posteri a deciderlo, quella gran massa di belve fameliche ed assetate di sangue si aprì in due grandi ali che non potevano volare.
Fu come si Mar Rosso fosse tornato ad aprirsi.
Ma un mare di uomini urlanti, i cui marosi sono più distruttivi dei morsi delle onde tempestose del Mar Rosso infuriato.
Il vecchio corpo nudo l'attraversò con una specie di fierezza incomprensibile.
Il silenzio si fece di pietra.
Il cielo si abbassò come per vedere meglio.

Il corpo dell'ex primo ministro, dell'ultimo capo di governo dello Stato di Cacania non fu mai più ritrovato.
Nessun rapporto fu più steso.
Le guardie di confine avevano abbandonato le divise nei posti di frontiera, nessuno più avrebbe controllato se clandestinamente un uomo nudo avesse lasciato un paese che non esisteva neanche più.
In un batter d'occhio, dopo la furia devastatrice del mare che sradicò qualunque forma di civiltà preesistente, la grande piana dove sorgeva lo Stato di Cacania tornò ad essere una vasta pianura desertica.
La  natura molto presto, felice, venne a prendere possesso degli ultimi relitti di una civiltà che aveva deciso di abdicare a se stessa.
Nessun uomo mai più percorse i viali che una volta erano stati alberati.
Le lunghe tracce diritte delle strade furono ben presto sentieri che nessuno più avrebbe percorso.
Solo qualche vecchio animale venne a morire in queste latitudini desolate, forse senza neanche sapere perchè nè che cos'era la morte.
Io sono venuto a sapere della storia dello Stato di Cacania attraverso antiche leggende udite nel villaggio e che narrano di una specie di Atlantide nascosta sotto la polvere di un deserto lontano.
Resta solo una mappa metallica, misteriosa e incomprensibile.
Alcuni dicono sia stata vergata di proprio pugno dal vecchio primo ministro dello Stato di Cacania.
Per altri, invece, era il frutto di un'interpretazione basata sui ricordi di qualcuno degli antichi abitanti di Cacania che aveva udito con le proprie orecchie l'ultimo annuncio dello speaker parlamentare svanito poi nel nulla.

24 feb 2013

LA FIABA DEL CIECO


photo by pierperrone


Camminavo per le vie della città, svagato.
Sai, quei giorni che le gambe sono un pò flosce, senza una vera ragione. 
Forse saranno stanche anche loro, chissà cosa gli passa per la testa.
Camminavo per le solite vie, quelle di sempre, e andavo con la testa persa in chissà quali pensieri.
A volte sono quelli ad andarsene in giro da soli, senza chiedere il permesso, senza neanche avvisare.
Io il permesso, l'avevo chiesto, invece, prima di uscire.
La testa mi faceva un pò male, forse era il gran vuoto, il senso di stanchezza, la noia, l'essersi perso...
Le tempie battevano, educatamente a dire il vero, come se chiedessero di dire qualcosa.
Ma io non stavo mica a sentirle.
E chè, non avevo voglia di niente, solo di andarmene, le mani sprofondate nel fondo delle tasche, sul tappeto mobile di una via qualunque.

Per fortuna in questa città ci sono tante strade e ognuna conduce da qualche parte, rimuginavo nella mia mente sovrappensiero, un poco svanita e un poco distratta.
"Si crede che sia così", mi ha detto una voce, garbatamente.
Oh, beh, inizialmente non pensavo che si rivolgesse a me.
"Si crede che sia così, che ogni strada porti da qualche parte", mi sono sentito ripetere, con un pò più di fermezza nella voce che si era fatta più alta.
Ma sempre con molto garbo.
"Eh, beh, ha ragione, tutti credono che sia proprio in questo modo, che ogni strada conduca in qualche posto", ho detto io, annuendo col capo, il mio gesto amplificato dal largo cappello a falde che fendeva l'aria orgoglioso della raggiunta rotondità.
"Eh, è facile. Basta seguire una strada, anche una lunga e diritta, una di quelle che non sembrano avere uno sbocco, imbottigliate fra la quinta di fondo di uno scenario urbano qualsiasi ed i larghi palazzoni alti e compatti come muraglie inespugnabili."
"Ma che bel modo di descrivere che ha, mia cara", ho risposto, così, tanto per dire qualcosa.
Un pò complimentoso e un poco servile.
"Basta andare. E basta ancora meno, proprio come sta facendo ora lei, che cammina sopvrappensiero".
"Cosa?", ho chiesto, ma più così, tanto per non essere sgarbato fino in fondo.
"Ma lei lo sa dove sta andando? Mi dica, se lo sa, dove porta questa strada?"

Da qualche parte, ho pensato, trasecolando, sorpreso.
Ma perdìo, ogni strada porta da qualche parte.
Il punto è sapere dove si trova questa qualche parte a cui conduce questa strada.
Io per esempio so che ogni passo mi porta da qualche parte, potrei girare da questo lato, così, tanto per vedere a chi appartiene questa voce.
O potrei girare sui tacchi, tornare da qualche parte, di dove sono venuto...
"Si, ogni passo conduce da qualche parte, signore. Ha ragione", la voce adesso voleva concedere qualcosa, per essere cortese.
Ma io la temevo, sapevo che aveva un coltello in mezzo ai denti, pronto ad affondarmelo dritto in mezzo alla
schiena.
"Si, signore, proprio come lei sta pensando. Ora può girare da questa parte, per sfuggirmi, oppure girarsene sui tacchi per ritornarsene sui suoi propri passi."
A questo punto mi colse un'ansia incontenibile ma, insieme, molto sotterranea, come un brivido profondo, una scossa elettrica.
Cosa mai voleva dire quella voce che restava sospesa lì, al mio fianco?
E' vero, non avevo fatto tentativi per sfuggirle, ma neanche avevo agito per portarmela insieme a spasso per la strada.
Non provai l'impulso di voltare la direzione del mio cammino.
Ero forse presuntuoso?
Eppure mi pareva così oltremodo surreale che quella voce mi stesse piano piano facendo sua preda.

Cominciavo a sentirmi come un animale in trappola.
Aspettavo la prossima mossa temendone l'imminente arrivo.
Giunse un soffio di vento, leggero, tiepido, odoroso.
Improvvisa, una folata di vita si era intrufolata nella mia silenziosa passeggiata.
D'istinto feci un gesto, non so se per scacciarla o per afferrarla.
"Si afferri a quella maniglia, la prenda, la prenda. Quel soffio  è la sua vita che parte!", m'invitò con decisione la voce.
Lo sapevo, ecco quel'era stata la sua mossa.
Prevista, attesa, tenuta.
Eppure imprevedibile allo stesso tempo, come tutte le cose della vita.
E' giunto il momento che io faccia qualcosa, pensai scuotendo i miei pensieri.
Forza, decidetevi, voi, distratte volontà, fate qualcosa.
Posso voltare i passi da un'altra parte.
Oppure posso essere più originale, alzare gli occhi, guardare, ora, dove sono giunto, in questa cieca passeggiata, smentire con un attimo di identificazione ogni cattivo pensiero di questa voce malfidata.
Potrei anche chiedere a lei, se sa, mica, dove si trova, ora che sbruffoneggia contro di me, come fosse un vigile urbano che eleva, arrogante, la sua contravvenzione contro tutte le direzioni sbagliate della vita.
Potrei anche scacciarla in malomodo, come si scaccia una petulante mosca estiva, o schiacciarla, come una schizzinosa zanzara...

Il mare delle possibilità mi si spalancò davanti all'improvviso, con i suoi gorghi, le sue profondità sconosciute, le sue infinite possibilità di perdersi...
Decidere.
Ecco.
Questo era il compito.
Decidere dove andare, qualcosa da volere, qualcosa da fare.
I miei pensieri e le mie volontà hanno disertato.
Constato con tutta evidenza che ormai, dato che la leva obbligatoria è stata abolita, nei fortilizi militarizzati dei miei pensieri non è rimasto nessuno a difendere le mie postazioni.
Anche i miei passi, ormai, arrancavano, più annoiati che stanchi.
Era come il lento raffreddarsi del passo si una locomotiva.
Il marciapiede, diritto come un binario, mi conduceva sicuro, ma il mio treno non era segnato sull'orario appeso alla stazione.
E neanche la stazione si vedeva, ancora, affacciarsi all'orizzonte, con i suoi fazzoletti sventolati malinconicamente, i suoi singhiozzi, le sue speranze, i suoi sogni...
Una comitiva chiassosa schiamazzava poco lontano, ma ero sicuro che non erano loro i miei compagni di viaggio, nello scompartimento che stavo occupando forse senza biglietto.

Vedevo i pesanti sbuffi di caligine sputati dal comignolo della locomotiva che lenta stava ripartendo svanire poco a poco, farsi parte di quello, grigie nubi rigonfie di vapore grasso che entravano nel grande flusso del tempo.
Lo spazio si era fatto sempre più basso, sotto quella cappa pesante.
La luce del giorno s'infiacchiva sempre di più, come il mio desiderio di andarmene in giro a passeggio.
Avevo notato troppi dettagli.
Per un cieco è uno sforzo che può costare un'intera giornata.
Volevo chiedere scusa e svanire, anch'io, nell'ombra in cui stava svanendo il fumo della locomotiva a vapore che ormai era diventata un puntino nero perso nel punto di fuga della prospettiva di una vita annegata nel buio.
I miei passi distratti s'erano, me ne accorgevo, fatti accorti.
Avevo paura.
Il piede esitava.
L'esitazione stavolta era il terrore che il vuoto l'ingoiasse portandosi appresso tutto me stesso in quel vasto mare che non riesco neanche a vedere.
Sono cieco.
Dalla nascita.
Non ho mai visto il colore di un fiore.

Io sono cieco, si.
Ho sempre camminato così, distrattamente, senza vedere.
Sono una marionetta, un pupazzo, una speciale bambola senza fili.
Un meccanismo senza ingranaggi.
"Io sono cieco", ho urlato.
La mia voce ha dato sulla voce alla voce.
Disperatamente.
Il silenzio dei sordi all'improvviso s'è spalancato come un baratro, davanti alla mia bocca.
La mia voce s'è inabissata in fondo a quel vuoto.
Ora sono sordo.
Ho pensato.
Perdutamente.
Sono un aquilone che sbatte le ali, distratto. Sono una cometa che vaga nel cielo bruciato.
Non so se l'ho pensato o se l'immaginazione mi ha ingannato anche stavolta.
Camminando nel vuoto ho imparato a tenermi sospeso nell'aria.
Sono leggero.
Solo una voce, ogni tanto, mi fa compagnia nei momenti in cui passeggio distratto...

23 feb 2013

FIABA DELL'OMBRA E DEL DESTINO

photo by pierperrone


Un'ombra mi piomba addosso, all'improvviso.
Mi attraversa mi oltrepassa ma poi ritorna.
Torbida, m'offre il suo allettante corpo molle.
Raggio di luce nera nel terso cielo adamantino.

Spoglia mi porge, muta, un conturbante invito.
Tende il suo nudo seno  acerbo ed io, ebbro ...
                                                                      bevo.
Ma la sua dolce coppa è un calice di fiele atro.
Amara, la bocca assapora il suo bacio aspro.

Sul viso mi stende con la mano una carezza lieve.
Il suo morso avido mi strappa la lingua e il cuore.
La sua frusta mi sferza la schiena appena offerta.
E, straziato, cado. Invano ... un perdono imploro 
                                                                    e pietà.

Inaspettato assalto, alle spalle, d'un brivido freddo.
Lungo il viale dritto, distratta, scorre la vita, ignara.  
Non più solo, me ne vado, ora. La mia  mano stretta 
                                                                    nella sua mano.
Schiavo suo, ormai, docile seguo la ferina bestia nera.

Nel manto avvinto di nubi basse mi sbatte la tempesta.
Gravi radici m'incatenano i piedi, imprigionati e stanchi.
Un vento di lontana angoscia al cielo rapisce il sole.
Nella palude marcia sprofonda, ora, il cosmo vuoto.

Cieche creature si dimenano nel regno delle ombre.
Rapìte forme familiari. Simulacri d'umani meccanismi.
Riflessi  rubati agli specchi lasciati orfani, nella vita.
Ignaro, un destino d'ombre muove vuote macchine
                                                                       e robot. 

Per le strade dritte immote restano carcasse d'uomo.
Corpi di donne avvinte ad ombre discinte languono.
Immane la sofferenza smostra gli scomposti volti.
Spasmi d'agonia scuotono povere anime sole ...
                                                            inconsapevoli.

Il destino sopraggiunge improvviso, ombra cieca.
E volubile se ne va. Spossato e stanco ... sconfitto ...
                                                                   annoiato.
Stormo di neri corvi, affamato avvoltoio, scruta.
Poi, mai sazio, sconsolato e vago, riprende il volo.

Il destino ci attraversa. Un'ombra passa. Una nube 
                                                                          in cielo.
Uno squarcio nello scafo, un fiotto d'angoscia vana.
Ad ombra e destino non ti puoi opporre, alto cielo.
E tu, uomo, cammina sulla tua dritta via, l'ignara vita.

20 feb 2013

LE ELEZIONI - PILLOLE AUTOBIOGRAFICHE (10)


Francisco ZURBARAN - AGNUS DEI


Ormai mancano pochi giorni, poche ore, potrei dire.
Ormai ci siamo, è arrivato il momento.
Si vota.
Non ho detto nulla, a questo proposito, su queste pagine.
La nuova casa che ho scelto, essendo più ... privata e nascosta, mi ha protetto un pò di più: la repubblica indipendente, l'altra casa, quella vecchia, forse era più grande e ambiziosa ma richiedeva una maggiore attenzione al tema della cosa pubblica, della politica, e questo non è perfettamente nelle mie capacità. 
Ma questo non c'entra, a dire il vero.

Ormai si vota.
Vorrei fare qualche considerazione al riguardo.
Sento il bisogno, la necessità, di esprimere quello che sento dentro a questo proposito.

La prima considerazione è che sono profondamente deluso e amareggiato.
In questi mesi ho usato spesso l'espressione "l'Italia è un paese malato", per dire che questo paese ha dei vizi di fondo che si devono curare, per consentire a noi stessi, ai nostri cari, ai nostri figli, di avere un presente dignitoso ed un futuro migliore.
La malattia dell'Italia è profonda e grave e richiederebbe terapie dolorose e invasive.
Non voglio fare qui una descrizione dei sintomi di questa malattia, chi legge penserà a quelli che vuole.
Penso che se si guardasse l'Italia dal di fuori, con occhio disincantato, si vedrebbero benissimo i morsi con cui la crisi economica si sta mangiando pezzi di città e di cittadini. 
Vedo crescere, intorno, gli spazi, i palazzi, i locali, le fabbriche che chiudono e che restano chiusi, sento notizie di fabbriche, negozi, attività economiche e commerciali che chiudono e che licenziano i lavoratori, mi rendo conto che i nostri figli non hanno più una probabilità di costruirsi il futuro, mangiano se noi gli apparecchiamo la tavola, ma non hanno più la forza e la fiducia per costruire qualcosa con le proprie mani.
A questa situazione aggiungo che quello che mi fa più male è il senso di rassegnazione che percepisco intorno.
Rassegnazione e sgomento.
Un esempio, che potrebbe essere una metafora molto pertinente, è la situazione del centro storico di L'Aquila.
Macerie murarie ed umane.
Come l'Italia, le cui macerie sono economiche e morali.
E rassegnazione.
La rassegnazione che impedisce di elaborare il sentimento di rabbia che cova dentro gli aquilani, ma che impedisce anche trasformare la precarietà e il dolore in energia costruttiva.
In Italia succede lo stesso.
Le macerie di Piazza del Parlamento (metafora della situazione politico-immorale della nazione) stanno lì, sotto i nostri occhi.
Nessuno le rimuove.
Rassegnati, ci siamo adattati.

Lunedì sera starò, staremo, attaccati al televisore per vedere.
Vedere cosa avrà saputo decidere il popolo italiano.
Le sirene della politica stanno lanciando i loro acuti richiami.
Promesse, invettive, anatemi.
E' offensivo il modo con cui siamo stati trattati.
Ai mali vecchi della politica si è aggiunta la dimensione surreale della protesta populista che ormai giustifica l'indifferenza al destino: si muoia pure, purchè si crepi tutti.
Questo pare urlare Grillo dalle piazze d'Italia, osannato da folle oceaniche che stanno per spazzare come uno tzunami le poche malferme istituzioni italiane.
Cosa faranno gli eletti di quel partito?
Sono persone comuni, che per molti versi ammiro e stimo.
Ma che si stanno prestando al gioco pericoloso di un avventuriero.
Cosa sarà del loro potenziale nei voti nelle aule in cui saranno presenti come eletti?
Cosa sarà della loro speranza di cambiare il paese quando si accorgeranno di avere i bottoni del potere sotto le dita e non sapere come fare per manovrarli?

Mi offende sentire dai sondaggi che coloro che hanno avuto le maggiori responsabilità politiche nel creare il disastro che stiamo vivendo saranno premiati con un suffragio significativo ed esemplare.
Mi offende l'ipocrisia che si nasconde dietro le dimenticanze, le amnesie, i silenzi, se non addirittura le bugie, le falsità le menzogne, le denunce di complotti nazionali ed internazionali.
Mi offende vedere che siamo trattati come idioti dai politici vecchi e nuovi, ed anche dai presunti tecnici che, nel trasformismo travestitistico nazionale, adesso si propongono come politici che salgono nell'agone.
Idioti a cui si deve raccontare la storiella del comunismo, del riformismo, della riduzione delle tesse...
La grave malattia dell'Italia richiederebbe interventi drastici.
Un mio amico, affetto da una malattia molto seria, che forse ne sta compromettendo la vita per sempre, si sta curando molto dolorosamente.
L'ho visto un mese fa, circa, l'ultima volta, divorato dalle cure che, si spera, potranno restituirgli qualche speranza di vita, sembrava arso, bruciato, consumato.
L'Italia, a mio parere, è come quel mio amico, si trova in una situazione come la sua.
E qualcuno, il medico di turno, dovrebbe spiegargli che, seppure dolorosamente, la cura a cui si deve sottoporre è l'unica possibile, anche se costa atroci sofferenze.
I medici che ho sentito - poco, a dire la verità, perchè il senso di stanchezza e di nausea mi ha sopraffatto, in questi tristi giorni di campagna elettorale - al contrario di quello che si dovrebbe hanno mentito, parlando di future riduzioni di tasse, aumento dei servizi e riduzione dei ticket...
Tutto il contrario di quello che ci faranno fra poco.

Entrerò nella cabina elettorale avendo negli occhi il volto bello di mio figlio.
Un giovane di circa  anni.
Che si sforza di dare un senso ai suoi giorni ed al suo futuro.
Noi, i suoi genitori, abbiamo dovuto spiegargli, più e più volte, che la più grande speranza per lui, per vedere i suoi sogni realizzati, per vedere i suoi progetti prendere forma, è quella di andarsene dall'Italia, di cercare fuori da questo paese un lavoro, una sistemazione, un progetto di vita.
Mi fa male dire queste cose a mio figlio, fa male a noi genitori, fa male alla nostra coscienza di cittadini che credono nel lavoro, nella bellezza del loro paese, nella speranza che l'Italia possa essere un paese normale.
Fa male davvero.
Ma è la verità, l'unica cosa  che un genitore può dire ad un figlio.
Credo che la ragione di questa situazione sia determinata dalla malafede con cui si è fatto finta di cercare le ragioni della crisi mondiale, di trovare dei capri espiatori in entità sfuggenti e impalpabili come gli speculatori, i mercati finanziari, le banche bulimiche.
Credo che dire la verità a proposito di un sistema di mercato divino ed onnipotente, lasciato in balìa dei propri istinti cannibali, stia divorando le povere creature sacrificali che abbiamo messo sull'altare del profitto e del superfluo.
I nostri figli sono diventati agnelli pasquali.

In questi giorni un altro evento di portata storica è accaduto.
Il papa, trovatosi di fronte al declino della propria forza fisica e spirituale, ha pensato che per il bene dell'istituzione da lui guidata fosse meglio lasciare il pastorale ad uno più forte perchè più giovane.
E si è dimesso.
Allo stesso modo, anch'io vorrei dimettermi da questo popolo indebolito ed invecchiato, privo delle energie necessarie per costruire un domani che sia migliore di oggi.
Ma non è possibile.
Non è possibile dimettersi da un popolo.
E' impossibile come lo è fuggire da se stesso.
Si resta inseguiti da dentro.
Ed è per questo - anche per questo - che ho chiuso l'esperienza "apolide" della repubblica indipendete.
Ma non solo non ci si può dimettere da un popolo.
Non serve nemmeno a qualcosa.
Sarebbe se come da un formicaio si dimettesse uno della miriade di soldatini autistici senza nome che si dannano disperatamente per dare un contributo a quel nero popolo sciamante.
Nessuno se ne accorgerebbe.
E nessun senso avrebbero quelle dimissioni.
Per questo voterò, domenica.
Per questo cercherò di nutrire la speranza che il lunedì successivo sia migliore e che il martedì possa esserlo ancora di più.
Guarderò negli occhi mio figlio e gli farò un'ultima raccomandazione di tenere sempre alto il valore della sua coscienza personale, perchè nessun altro valore potrà mai superare quello nei giorni che avrà davanti, facili o difficli che siano.
Poi lo guarderò uscire di casa e lo seguirò con l'immaginazione per vederlo andare a depositare la sua scheda nell'urna, per la prima volta.
Avrà la schiena diritta.
Lo so.
Cosa altro, posso avere di più prezioso, come padre e cittadino da questo paese malato?

19 feb 2013

PILLOLE AUTOBIOGRAFICHE (9)

from: http://tsgarp-mysticlight.blogspot.it/2012/02/riders-on-storm.html
Al cinema sotto casa fra qualche giorno proietteranno un film molto particolare.
Un concerto dei Doors.
Un concerto del 1968.
Live at the bowl.
Ho provato a cercare su youtube quanche spezzone video del concerto.
Ho trovato questo, un concerto intero, Live at the Holliwood bowl.
Non so se è esattamente lo stesso che daranno al cinema.
E, comunque, anche se fosse la registrazione dello stesso concerto, non c'è nessuna preoccupazione.
Al cinema la musica sarà sparata a tutto volume, con la qualità degli impianti sonori pieni di tecnologia e di effetti speciali, su uno schermo di 10 metri più o meno, che rapirà gli spettatori come una macchina del tempo, per teletrasportarli indietro di tanti anni quanti ce ne sono fra questo 2013 ed il lontano 1968.
Sono 45 anni, giusto, no?
Ho fatto il conto a mano, a naso, come si dice.
Mi viene 45.



Stavo dimenticando di pubblicare il video del concerto.
Grave mancanza.
Ma ho rimediato subito.
Adesso, le cuffie, un comodo divano, oppure l'abbraccio avvolgente di una poltrona, magari un sorso di grappa nel flute... a  volte, la sera, mi piace gustare quel sapore denso e vellutato che si trasforma in calore man mano che scende nella gola e si ferma nello stomaco, mi piace assaporare la sfumature che le uve hanno dato a quello spirito che si è condensato dal vapore della distilleria durante il viaggio nell'alambicco...
E ora la musica...

Jim Morrison era un bel ragazzo.
Aveva un volto molto bello, dolce, dall'aria ingenua, innocente, un poco infantile.
Mi ha sempre ispirato tenerezza, un pò come se fosse un figlio.
Non so perchè, mi richiama il volto che nell'iconografia comune viene data al Cristo morto sulla croce 2000 anni fa.
Anche Jim è morto inchiodato ad una croce.
Nacque nel 1943, in una città americana di nome Melbourne, una di quelle città che hanno il nome di altre città di altri posti di altri Paesi. Gli americani, in questo, non hanno saputo essere granchè originali.
Ed è morto nel 1971.
Quando è morto aveva meno di 30 anni.
Per essere preciso, aveva solo 28 anni.
Era un ragazzo.
Era ancora solo un ragazzo.
Per questo il suo volto è quello di un ragazzo.
E il volto di un ragazzo è bello.
Sempre.
Specialmente se ha 28 anni.
E se si sa che non ha mai potuto andare oltre.

La sua voce è acre, opaca, roca, la voce di un nero, una voce con le unghie, una voce che graffia.
Le sue canzoni arrivano ancora oggi al cuore, direttamente al cuore di chi le ascolta.
E succede anche se il significato delle parole in lingua inglese resta un misterioso segreto che la nostra anima, peraltro, si rifiuta di sciogliere.
La voce, le parole, se vengono denudate, se perdono tutto il mantello di significati che siamo abituati a dare a ciascun suono semanticamente significativo, si trasformano in vibrazione, in armonia, in accordo con l'anima di chi ascolta...
E' uno strumento musicale.
Jim Morrison sapeva suonare quello strumento in modo che qualcosa dentro di noi si metteva in sintonia con le ombre che lui sentiva dentro di sè e che proiettava fuori, cantando sul palco.
Queste ombre attraversano la sua voce, l'avvolgono in uno sfondo oscuro, primitivo, sanguigno.
Mi ricorda, quella cupezza malinconica, solitaria, la stessa solitudine triste delle ombre di Caravaggio che, come un mantello pesante, come una cappa quasi asfissiante, si raccolgono intorno ai personaggi dei suoi dipinti.
C'è un'aria di perdizione, un presagio di morte.
Forse è la consapevolezza di un destino straordinario e terribile.
Tutta la musica di Jim Morrison, del suo gruppo, dei Doors, è intrisa di questo veleno dolce.
Un veleno che viene istillato dal pungiglione di un Narciso bello e perduto.


La vita di Jim è ...
Più precisamente dovrei dire la morte di Jim Morrison...
La storia di questo ragazzo morto all'età di neanche 28 anni è la storia di un sogno che si perde troppo presto.
Una vita annegata nell'alcol e nelle droghe.
Una vita di perdizione, come tante altre vite di artisti, specialmente di tanti che, in quegli anni '60 e '70 del secolo scorso, si erano perduti per donarci i frutti di un'energia creativa che fa sentire i suoi riverberi ancora oggi.
E' un piacere vedere oggi la locandina del film che sarà proiettato a giorni.
Quando era vivo, Jim Morrison era considerato più o meno un demonio, dai perbenisti del suo tempo.
Erano tempi che, come quelli di oggi, erano ricchi di perbenismo e di ipocrisia.
In America, in Europa, in Italia.
Erano molti i demoni che venivano additati come peccatori, corruttori di costumi, avanzi di galera da rinchiudere.
Morrison passò anche per le galere americane per oltraggio al pudore.
Il senso del pudore è quanto di più ridicolo possa esistere per misurare la storia.
Ma il senso del pudore ha sempre tenuto aperte le porte delle prigioni, spesso ha armato le mani di ipocriti lapidatori, ha condannato al rogo, al manicomio, all'emarginazione, al ludibrio delle gogne, streghe, folli, originali e artisti...

Guardare la locandina con il volto da bravo ragazzo di Jim Morrison che campeggia nella vetrina del cinema è, di per sè, la sconfitta di quell'ipocrita senso del pudore che si è eretto a giudice nei secoli e che ha armato i sermoni di preti e generali, demagoghi e governanti.
Solo che nessuno sa di quella sconfitta.
Il concerto viene proiettato perchè gli incassi del film saranno cospicui.
Almeno, così si aspettano i produttori del film ed i proprietari dei cinema.
Una questione di soldi, solo una questione di soldi.
Perchè i padroni del mercato, ormai, non rischiano più i loro capitali per l'ideale, la speranza, il futuro, la pace, l'amore...
E' solo una questione di soldi, una faccenda di pubblico, un problema di percentuali e di poltrone in sala occupate...
Lo so, è un'amara conclusione.
Ma temo sia proprio la verità.
Lo sapeva forse anche Jim Morrison.
E forse lo sapevano anche tutti gli altri artisti che, ad un certo punto della loro parabola, hanno pensato fosse meglio scendere dal treno della vita che piegarsi al ricatto della notorietà.
Molti sono scesi che ancora non si erano fatti uomini maturi.
A me piace pensare, almeno per una attimo, prima di leggere i loro referti necrologici, che avevano preferito scendere dal treno prima che arrivasse la stazione del divismo, quando ancora erano lanciati a velocità supersonica sul binario della loro straordinaria ispirazione...
Sarà per questo che fioriscono, come anche per Jim, le leggende sugli artisti che non sono mai veramente morti.
Sarà per questo che gli artisti non muoiono mai!

16 feb 2013

'A MORTE NERA

Peter BRUEGEL IL VECCHIO - IL TRIONFO DELLA MORTE




'A morte se sta piglianno 'sta città.
Nù ppoc' 'a vota, s' 'a stà piglianno tutta quanta!
'E 'na morte ca' sciulèa chiano chiano 
pè mmiez' 'è viche, 'a sott' 'e vvie, sagle p' 'i quartier', 
s'acchiappa stritta a' 'e fronn' 'e ll'arbere...
Care gucciulianno cumm' 'a nnà schizzichera,
 t' 'a' rretruove attaccata 'nguollo comm' 'a macchia 'r uoglio 
appiccicusa. te frije chiano chiano 
cone fusse na sardella 'rint' 'a 'na parella...

E' 'na morte silenziosa.
Te  trase arinto come se t' 'a stess' 'a rrespirà.
Comme fosse 'nu vucculone d'aria, 
'nu surso 'r acqua fetenta, 'nu muorz' 'e pane appurutato...
Féte comme sul' 'a morte pò ppuzzà.
Pe' mmiez' 'e vvie se sente 'nu fetore forte, 
'nu culer' e morte... Passeno 'e zoccole nire nire, 
cu' 'na coda longa longa, pare 'nu penniello 
ca' s'ave tinto 'arint' 'a la bbuatt' d' 'a ciorta nera...

Tremmano tutte 'arint' 'e ccase.
'O vierno s'ave purtato 'o sole e mmò stammo sulamente mmiez' 'o ffriddo.
'O cielo s'ave miso annascuso Sott' 'a 'nu lenzolo a lutto.
Nuvole nere, nere comm' 'a morte ca se s'ta magnanno 'a città nosta.
Songo cchiù e diece juorne ca 'ccà stamm' 'o scuro.
La luna è caruda 'a 'rint' 'a 'no puzzo. Nisciuno ten' 'a forza 
manoco d' 'a tirà 'ncoppa. Essa allucca disperata, 
chiede ajuto, va truanno quaccaruno che ll'e pò dà 'na mano...
Ma ll'acqqua, inesorabbile, saglie chiano chiano, 
Essa stà affucanno, puverella, nunn è nata pe' natà.
Essa è cumm' a nnuje. E' comm' 'a 'na speranza.
Mò stà ajenn' a fondo. More pur'essa assieme a nnuje.

Aggio visto, mentre me n'annavo passarianno, 
tiranno 'o carreto mio, 'na curnacchia nera 
ca se steva arrecrianno  dint' 'a na pozzanghera 
ca 'nu muorto stuorto avva vumecato.
E' la natura. Ca s'arrepiglia 'o ssuojo.
La natura, che non canosce e nun distingue.
Téne famme? 'E mmagne!
Chillo ca' truove  è bbuono. Chillo ch'ave creato ddio.
I' vaco tiranno in giro 'o carretto 'de li muorte.
Mi chiammano nelle case dove c'è arremasta 
la voce, muta, sulamente, de la disperazzione.
Se vulessero luvà, a sott' all'uocchje addulurate, 
'sta fetenzia fetusa, ca ce magna  a tutt' quante...
E allora chiammeno a mmè. E io arrivo puntualmente.
"Levateme 'e sott'all'uocchie 'o figlio mio, puveriello".
Purtateve sta bella ggiovane. Ca chella, 'a morte nera 
se ll'ave pigliata 'n fiore,  mentre steva 'a ffà ll'ammore.
Era bella, 'a giuvinetta. Addorosa 'e rose, miele e ciure...
La cannela dell'amante suojo s'è ammucculata all'improvviso.
Nunn'è arrimasta manc' 'a forz' cchiù p' 'e chiagnere.
"Purtativvelle vuje ca facite stu' mestiere..."

Vado giranno sulo, 'e notte, mmiez' 'e vvie, 
Passo 'nnanz' 'o puorto ... chiagnenno sott' 'e ffeneste.
La notte oscura de' janare s'ave arrubbato d' 'o sole tutt' ll'oro.
L'ave acciso, l'ave lasciato annuro ... 'nu muorto senza moccolo.  
Pur' 'o mare s'ave fatte d' uoglio arzo, denzo comm' 'o cchiagnere.
'E pisce s'avessero mettere a prijà. Ma nun teneno manc' 'e mmane.
Comme posseno innalzarle  'ggiunte 'nfacc' a ddio?
Chille, 'e pisce, nun teneno n' 'a voce pe' ghjì 'a cercà 'na razzia!
E ppò, 'o ssaje? Chillo, ddio, pe' nnuje, s'ave fattosi accecare!
Pure muccule e cannele, rint' 'a cchiesa, se sò stutate tutte quante.
'Nu sciuscio 'e viento gelido... 'na fredda tramuntana... 
ave trasuto 'mbiso, 'e suppiatto 'a sott' 'a porta...
All'indrasatto s'è struscinato 'nfacc' 'o muro...
E puro Cristo, tutto anfruddulito, s'è sceso lesto dalla croce.
Ave sbattuto 'a porta... S'ave rutt' 'o cazz'...

E nuje simmo rimaste sule. Jer' a matina, 
a palazzo rriale, aveno aizzato 'na bannera 
'a 'nnanz 'a fenestra. 'Na bannera nera.
Tutt' 'e prievute d' 'a città s'aveno misso 'n pruciussione.
Nobbile e generale.'Nu tamburo, 'na trumbetta.
'Na carrozza appriess' 'a ll'ate... Anno sceso abbascio 'o puorto.
Pur' 'o rrè, accussì, cuntrito e appaurato, alla fine 'd' 'a jurnata 
Se n'ave 'gghiuto  via. 'A nave soja annanze, 
annescusa, senza cuccarde... ave avasciate 'e vvele ...
Pareva 'nu funerale, chella flotta longa, sulla rotta dell'Ispagna .
'Na botta de cannone s'ave sentuto all'ultimo..
'O fummo, finalmente, rimanette sulamente...
'O curaggio, chille, pure se l'aveno purtato.

Stanotte tutto è oscuro. 'O cielo par' apparato a lutto.
Acchissà ndove si sono annescus' 'e stelle?
Me ne vaco cercanno 'nu ppoco d'aria fresca.
Sott' 'e feneste abbarrate nun se sente cchiù nisciuno...
Forze tutte dormeno. Tutte certamente, a chest' ora scura!
O forze, chi 'o ssape, songono muorte tutte quante!
'Uarde! Nun se sente manco 'nu lamiento.
'Nu sciuscio, suspiro, 'na fulata 'e viento.
E' Immobbile ll'oscurità. Cumm' 'a 'nu mant' a llutto.
Sperzo, 'o silenzio m'accumpagna.
Pe' chest' 'e vvie spente.M'arrecordo, 'na vota, 
'ccà siscava spenzierato 'nu bello uagliunciello...
E invece, 'mo, dint' a la gaiola, nun canta cchiù 'u cardillo.
Me ne vaco appriesso, cumm' 'a nnu cecato...
Vaco cercanno luce, respiro, aria ... un pò di 'ciato.

Aggio visto, m'è parzo, llà 'bbascio, 'e rimpetto 'nfacc' 'o muro... 
'Nu fuje fuje pazzo, nu jatto, nu ratto... tutt'a un tratto...
Me s'apers' 'o core. 'A vocca  spalancata. 
Respiraje forte, lancianno 'n allucco dirett' 'ncielo.
Appaurato, me s'azzeccaje 'nu muorto cunzumato.
Jeva cercanno 'a via, 'nu tavuto, 'o campo santo...
Me chiedette si 'o cconoscevo io, 'o cimitero, 'o mucculillo, il riposario...
Cu' 'nna mano s'annascunnev' 'a faccia, ca me pareva quasi d' 'o ssapè...
Chill'era 'Ntonio, abitava, 'na vota, 'ncap' 'a mmè.
Faceva 'o femminiello, allora, era bello, nu ppoco scurnusiello...
'Sta vota nunn'aveva appaura e manco un filo di vergogna.
'Na faccia arrucinata, ll' uocchje arriettat' 'e sang'...
'Ntruppecaje, s'afferraje  a mmè, cumm' 'a 'nu bastone.
Tremmava tutto, 'nfreddoluto, pareva ca spirava...
"Cerco il cimiero, straniero, vagante passeggero.
Sai dirmi tu la via? " 'I restaje ammutolito. Schiarava.

Luntano, sotto al cielo nero, se stava aizanno 'a velatura de ll'aurora mattutina.
Rossastra, pareva stamattina, 'Na culatura 'e sang', un lago rosso, comm' al mattatojo...
Andonio me tirava. Vuleva acquestionare. "Meschino. Nunn' ajut' manch' 'e muorte!"
I' nun sapeva cchè 'uardà. Chillo muorto che manco mman' 'a morte vuleva truvà pace.
'O chillo russ' 'ncielo, ca pareva la viacruciss. Il cammino maledetto del Cristo sanguinate...
Chiamaje forte "Andonio!!! Scetate. Nunn'obbedì 'a morte!!!" Ma subbeto capette
ca nunn'era serio, orami, chillo s'era fatto surdo, nun puteva cchiù sentì.
Che cazzo sta succerenno, ogge, a chesta povera città?
La notte e il giorno si sono appucundriati. 
Nuje simme muorte, ma jammo ancora camminanno...
La morte nera téne 'o strumento suojo 'mmano.
Ll'aiza arto forte, diritto 'nfacc' a nnuje... 
Nuje nzerramm' l'uocchie, simme tutt' inddiferenti.
Durmimmo, simmo muorte, che differenza fà?




'A morte se sta piglianno 'sta città.
Nù ppoc' 'a vota, s' 'a stà piglianno tutta quanta!
'E 'na morte ca' sciulèa chiano chiano 
pè mmiez' 'è viche, 'a sott' 'e vvie, sagle p' 'i quartier', 
s'acchiappa stritta a' 'e fronn' 'e ll'arbere...
Care gucciulianno cumm' 'a nnà schizzichera,
 t' 'a' rretruove attaccata 'nguollo comm' 'a macchia 'r uoglio 
appiccicusa. te frije chiano chiano 
cone fusse na sardella 'rint' 'a 'na parella...

E' 'na morte silenziosa.
Te  trase arinto come se t' 'a stess' 'a rrespirà.
Comme fosse 'nu vucculone d'aria, 
'nu surso 'r acqua fetenta, 'nu muorz' 'e pane appurutato...
Féte comme sul' 'a morte pò ppuzzà.
Pe' mmiez' 'e vvie se sente 'nu fetore forte, 
'nu culer' e morte... Passeno 'e zoccole nire nire, 
cu' 'na coda longa longa, pare 'nu penniello 
ca' s'ave tinto 'arint' 'a la bbuatt' d' 'a ciorta nera...