31 dic 2012

LA FUGA

LA FUGA
photo by pieperrone


L'ho visto.
Stamattina.
Mentre andavo al lavoro.

Ero più assonnato del solito.
Mi sono svegliato presto, neanche alle sei.
Ho avuto un sonno abbastanza agitato.
Devo andare al bagno, ho sentito.
Cazzo, son pieno, devo fare pipì.
Mannaggia, devo andare anche al lavoro.
Ma mi sono gustato il caffè.
Ho mangiato il pane col latte.
E un piccolo dolce, è ancora Natale.
Poi un poco mi sono disteso.
Dai, dieci minuti, un altro poco di caldo riposo.
Una seconda tazza di amaro caffè.
Adesso è ora, mi devo dare da fare.

Mi sono alzato. Svogliatamente.
Col pennello, ho steso la crema.
Candidamente la schiuma ha obbedito.
Mi sono rasato. Due giorni neri di barba.
La pelle, ancora assonnata, voluttuosa ha ceduto in fretta al rasoio.
Due giorni di barba alla lametta cedono presto, lasciando allo specchio la più morbida pelle.
La doccia, calda, quasi bollente.
Un relax al vapore, da gustare con gli occhi socchiusi.
Un sogno ritardatario, gorgogliando, cerca lesto di tornarsene a casa.
La crema emolliente ho steso con gesto meccanico.
Poi, un pantalone, la camicia, la meno impegnativa.
Una, comunque, di quelle che va con la cravatta.
La giacca, quella inglese. Sportiva, allegra, meno seriosa.
Il decoro di un dopobarba fragrante, profumato premio di una toeletta svogliata.
E' ora. Ed ora, oddìo, la cravatta!
No, questa proprio non va.
Or la seconda. La provo e lo specchio mi fa: questa si, è certo, è meglio questa di quella.
Assonnato più di quanto vorrei, saluto e mi chiudo dietro la porta.

Pochi passi lungo la via.
Attraverso di fretta e svolto dietro un angolo retto. 
Cento metri, forse duecento, poi giro. Un altro angolo retto.
Attraverso al solito incrocio e m'infilo sotto la galleria di rami dei platani.
I pupazzi sul muro giocano ancora con me, mentre di fianco.
Un treno della metropolitana sferraglia sulla mia testa.
Dall'altro lato, gli alti palazzoni rossi, tozzi, stupiti mi guardano torvi.
Anche loro assonnati. 
Le grandi palpebre verdi dei rettangolari occhi assonnati stentano ad alzarsi sulle lunghe file di finestre dormienti.
Dormono fino a tardi, stamani.
La vita comincia in ritardo, in questo strano giorno d'interludio festivo.
Alzo lo sguardo distratto verso le alte pareti rugose. 
Ricevo una lunga carezza ruvida dai mostri ancora persi nel sonno.
Le foglie secche stridono, sotto le mie scarpe invernali.
Gli operatori ecologici stanno ancora spazzando la via, sull'altro marciapiede.
Cartacce unte, vetri rotti di bottiglie spezzate. E altre foglie secche. 
Resti di vita che chiude il suo ciclo.
Quello di là è il lato sbagliato, l'altro, oscuro, lato della vita.
Bisogna stare dal lato giusto, al mattino, per non essere spazzati via dalla vita.
E non sempre questo basta a tenere alla giusta distanza gli schizzi del destino.

Assonnato ed appesantito dal passo svogliato, mi sono girato a guardare.
Mi sono grattato come un plantigrado sul tronco ruvido di uno dei rossi palazzi sul lato opposto della vita.
Di là succedono cose fantastiche!
La vita non scorre uguale sui due lati del corso.
Stare di qua, sul lato ordinario e ordinato del mattino, significa aver imboccato la via giusta che porta in ufficio.
Giusto!
Ma dall'altra parte stanno a cadendo fatti incredibili.
Un prigioniero sta fuggendo ai suoi aguzzini.
Si è afferrato, disperatamente, ad una scaletta di legno.
E pende nel vuoto!
Adesso salta giù e si spezza le gambe.
Penso spaventato e distratto.
Devono averlo seviziato a lungo.
Forse l'hanno tenuto prigioniero in un luogo nascosto.
Cerca di fuggire dal quinto piano, forse dal sesto!
Fugge da un ripido condominio popolare dalla rossa pelle glabra e rugosa.
Come la guancia infiammata da una vecchia lametta stagliata.

Con rapido gesto meccanico mi cavo il fotofonino dalla tasca poco profonda.
Alzo il braccio, come stessi impugnando un revolver potente.
Adesso faccio fuoco e lo libero.
Per sempre.
Povero babbo Natale.
Appeso a quel filo di corda che pende sul nulla.
Stramazzerà e si spiattellerà sulla strada.
Rovinerà l'opera degli operatori.
Insanguinerà il marciapiedi di sangue .
Stai attento, hanno appena lavato la strada!
Gli urlo addosso, poco convinto.
Lui neanche si volta a guardare.
Anche se, lo so, ha sentito il mio avvertimento sincero.
Forse babbo Natale non vuole saltare.
Forse vuole restare appeso per sempre.
Forse si è solo nascosto.
Aspetta che i suoi aguzzini escan di casa.
Il supermercato ha aperto, all'angolo, per l'ultima spesa dell'anno.
Forse vuol fuggir dalla porta.
Se in casa non rimane nessuno.
Io non sono un eroe.
Non posso aiutarlo a scappare.
Poi, potrebbe pure essere un ladro. 
Non posso lasciarlo fuggire.
La mia mano, giustiziera, ha esploso secchi due colpi.

Poteva anche essere un ladro.
Furtivo, s'intrufolava dalla finestra.
Per rubare ad un povero vecchio, impaurito, rintronato, rintanato, là dentro, nel letto, nel vecchio appartamento popolare di quel rosso, ruvido fabbricato lineare.
I miei colpi lo hanno raggiunto alla schiena.
Due volte, fiero, ho pigiato il virtuale grilletto del fotofonino.
L'ho fotoripreso, schiacciato sulla rossa parete sbiadita.
L'immagine è ferma, composta.
Ai suoi piedi, un artista dilettante ha decorato le saracinesche dei negozi che stanno aprendo adesso i loro occhi assonnati.
Si fa fatica, in questa strana mattina che s'incunea fra due pigri giorni d'inerzia.
Un soffio di vento scompiglia i miei sogni pettinati col gel, s'insinua tra i pochi, corti, capelli che ancora mi sono rimasti...

Arrivo quasi alla metro.
Devo comprare ancora il giornale.
Poi, m'introduco nell'androne immerso ancora fra le ombre del sonno...

30 dic 2012

27 dic 2012

PILLOLE AUTOBIOGRAFICHE (3)

Accessori sul comodino - da 123RF


Le pillole si sono mischiate.
Nel senso che, se di pillole si tratta, in questa bottiglietta ce ne sono di diversi tipi, marche differenti, cure (presunte) per malanni svariati.
Sul tavolino, a fianco al letto, questa è la terza bottiglietta, ormai.
Abbiamo curato, diciamo così, alcune malattie, quelle del 1959, del 1965 e del 1969, con il primo flacone e quelle del 1979 e del 1980, con la seconda.


Il film "The wall", di Alan Parker, è tratto dall'omonimo album dei Pink Floyd.
L'album è del 1979 (malattie già guarite), il film, invece, è del 1982.
Ancora un film contro la guerra, come Hair, che sta nella bottiglietta n. 2.
Forse, però, più un film sulla condizione umana, che la guerra annienta e distrugge.
Non solo nel corpo fisico.
Forse, soprattutto, è il lato psicologico, immateriale, l'interiorità dell'uomo ad essere distrutti dalla guerra.
E non solo i soldati.
Tutti, tutti coloro che vengono a contatto con la guerra, in un modo nell'altro, in qualunque modo, diretto o indiretto, ne vengono feriti a morte.
Coloro che pagano con la vita.
Certo.
Ma anche coloro che subiscono perdite e lutti di parenti, amici, cari.
Il mondo degli affetti è vittima dei bombardamenti come e più di quello delle cose materiali.
E, poi, coloro che subiscono danni, che si ritrovano senza più niente, retrocessi a reietti della civiltà, sfollati, asilanti, clanestini.
E coloro che si devono adattare ad una condizione animale senza comprenderne la ragione.
E anche coloro che sopravvivono, perchè nelle generazioni successive, devono convivere con il peso del dolore e del lutto addosso.
Dolore contro natura.
Lutto assassino.
Assassinio senza condanna.


Questo film non l'ho visto nel 1982.
Io non amo andare al cinema e non sono neanche sicuro che nella città dove abitavo, in quell'anno, l'abbiano effettivamente proiettato.
Ero, nel 1982, ormai universitario... di rigetto...
Abitavo in una cittadina del litorale laziale.
Cercavo di rimettere insieme i brandelli di una vita che era stata morsicata dalla sorte.
Ero, dicamo pure, una specie di sopravvissuto ad una guerra tutta personale.
Avevo scansato, per pura fortuna, il terribile terremoto che colpì l'Irpinia, il Sannio e tante altre terre adiacenti e limitrofe nel 1980.
La mia famiglia si era trasferita nella cittadina laziale sul litorale di Circe per trovare una stabilità "psico-logistica" che non era stata capace di percepire dalle tracce che la vita aveva lasciato fino a quel momento. Avevano lasciato, da giovani, loro, quelli che sarebbero stati i miei genitori, i loro paesi d'origine.
Lui, papà, aveva lasciato le campagne pugliesi bruciate dal sole del Salento.
Il fratello maggiore, partito per il fronte.
Prigioniero di guerra,  era ritornato proprio come Gennarino in Napoli Milionaria! di Eduardo de Filippo. All'improvviso, stanco, affamato, distrutto nel corpo e nell'anima.
Lei, la mia mamma, è l'unico membro del suo gruppo familiare a non essere emigrata in America.
Nella mitica America. Gli States. New York. La Statua della Libertà. La porta del futuro.
Avevano lasciato un piccolo comune al confine fra Lazio e Campania, ridotto in macerie dalla guerra.
Il loro progetto di vita, l'intero loro orizzonte di vita, era stato distrutto dalla guerra.
Il passato delle tradizioni, degli affetti, dei parenti, amici e conoscenti, lo stesso archivio comunale erano trasformati in macerie dalle bombe, dalla guerra, dal dolore, dalla paura, dalla povertà.
Per tutti, era la mancanza di speranza.
Chi aveva pensato di emigrare in Italia, chi in America ...
Nel 1980 la mia famiglia aveva deciso di piantare, finalmente, le sue radici, dalle parti in cui sarebbero dovute esserci già piantate quelle di mamma.
Ma lì non le trovarono.
Però la vita fece un altro corso...


Comunque...
Nel 1980, scansai il terribile terremoto di novembre.
Ero partito dal territorio campano a settembre.
Non riuscìi, comunque, a scansare il terremoto che travolse la mia vita nel 1981.
Ad agosto.
Non importa raccontare cosa avvenne esattamente.
Da settembre, ormai, avevo addosso il dovere di diventare un uomo.
Vedermi le cose dal punta di vista di chi non deve più chiedere di crescere, ma, piuttosto, di chi ha il peso di decidere.
Ma io mi presi tutto il mio tempo.
Nel 1982 stavo ancora rimettendo a posto il mucchio di macerie.
Qualcosa andava comunque bene, la mia vita era su un binario lavorativo ...
Certo, da precario...
Un precariato, però, con una certa stabilità di prospettive...
Ho assaggiato, allora, diciamo pure, il futuro dei giovani d'oggi.



The wall.
Questo film, probabilmente, nella piccola città di mare dove vivevo, non sarà mai arrivato nelle sale.
Una o due che fossero, le sale.
Comunque, a me i film non piacevano, andare al cinema mi deprimeva.
E anche oggi non vado quasi mai al cinema.
Invece i Pink Floyd mi piacevano.
Erano stati il mio gruppo musicale preferito.
Durante gli anni del liceo avevano suonato la colonna sonora del mio film, quello della mia vita.
Ma li conoscevo soprattutto musicalmente.
Non avevo molte nozioni dei loro testi, delle loro liriche, delle loro vicissitudini.
Eppure non sono mai stato un disinformato.
Leggevo il quotidiano quasi ogni giorno fin dai sedici anni.
Almeno uno!
Ho comprato, tanto per dire, il primo numero di Repubblica, quando uscì, nel 1976.
Compravo spesso il Manifesto, qualche volta, anche altri giornali.
Ma non c'era internet, allora.
Le traduzioni ... o conoscevi la lingua oppure... niente.
Io, niente.
Per questa ragione, quando mio figlio, al tempo in cui era liceale,  mi ha fatto scoprire il film scaricato ... illegalmente (si può dire?), sono rimasto sinceramente sorpreso.
Anzi, positivamente meravigliato.
Il mio mondo interiore, anche qualcosa della mia vita - che passa anche attraverso di lui, mio figlio - era diventato parte di un film, e con quale forza.
Cosa aggiungere di più?
A questa versione del film hanno aggiunto anche i sottotitoli in italiano delle canzoni !

25 dic 2012

LA CITTA' DEI GATTI

La città dei gatti.
photo by pierperrone

Le vie della città sono piene di sogni.
Basta andare.
Non c'è una linea precisa, una rotta, una meta da raggiungere.
Basta solo andare.
Non è come nella città degli uomini, dove tutto sta finendo, lentamente soffocato da un male che nessuno conosce.
Nella città degli uomini ci sono gli incubi.
Mostri, fantasmi, creature terribili, assetate di sangue.
Nella città degli uomini i morti camminano.
Non sanno, non si accorgono di essere morti.
Gli uomini sono pieni dei loro pensieri.
Non si sa cosa sono, quei pensieri, nessuno li vede.
Ma loro hanno la testa sempre immersa là dentro, come fossero le gocce di un mare immenso.
Non sanno nuotare, in quel mare.
Eppure hanno sempre la testa là dentro.
Ombre che allungano le mani, toccano, tastano, palpano.
Prendono, afferrano, arraffano, arruffano, spremono, sprecano...
Il tempo, per gli uomini è un grave pensiero.
Così disse uno di loro, prima di tornare ad immergere la testa là dentro.
Il tempo è come un mare, anche il tempo è un grande mare che nessuno conosce.

Nella città dei gatti abitano i sogni.
Volano leggeri.
Bolle colorate.
I sogni sono i pensieri dei gatti.
Negli occhi dei gatti restano impresse le forme del giorno, le luci, le soffici nuvole che corrono leggere lassù.
Sono attenti, i gatti, quando osservano, curiosi, un particolare.
Lo sguardo acuto lo cattura come un movimento rapido della zampina felina.
Prima ci gioca, a lungo, per fissarselo, fermo, negli occhi.
E quando quella forma, infine, si è impressa, ecco, lo scatto animale diventa caccia feroce, arma crudele.
Negli occhi dei gatti restano impressi i particolari della vita degli uomini.
Una strana memoria popolata di misteriosi particolari sconosciuti.
Non come il familiare profilo di un topo con i baffi e la coda sottile.
O la sagoma filiforme di un'affilata lucertola verde.

I sogni dei gatti sono diversi dai sogni che un tempo facevano gli uomini.
Gli uomini chiamano sogni i pensieri notturni.
La vita che scorre di notte, quando nessuna la vede.
La vita nascosta, che si vergogna di essere esposta alla luce del sole.
Gli uomini spesso dimenticano i sogni che popolano il regno del sonno.
Un regno abitato da leggiadre creature che vivono libere di fare quello che vogliono.
I baci, l'amore, gl'inutili tentativi di fuga.
I salti che non finiscono mai, i sentieri tortuosi, i laghi che sprofondano nell'infinita inconsistenza della vita notturna...
Gli uomini dividono i sogni dagli incubi.
Nelle ore di veglia, mentre la testa annega nei pensieri inspiegabili, la paura diventa sovrana.
In quel momento, lei chiama con voce tonante, cupa e arrogante.
Le creature notturne che le obbediscono si volgono a lei.
Quelli sono, per gli uomini, i terribili incubi obbedienti al cieco terrore.
Gli altri abitanti, i disobbedienti, i sordi, gli spensierati, gl'increduli, li chiamano sogni.

Questo i gatti lo sanno perchè, nella loro città, vivono liberi tutti gli effimeri sogni.
Le ore  notturne non sono infestate, nell'affollata città eterna dei gatti, dal nero terrore di perdere il senso del vero.
I gatti vivono liberi.
Il vero, pei gatti, è il vero degli occhi.
Un odore che arrovella le punte dei baffi.
Un colore che spunta improvviso da un cespuglio fiorito.
Un suono strisciante, un movimento improvviso, una fugace apprensione,l'improvviso chetarsi del temporale che muore.
Anche la città degli uomini, piano, languisce.
Muore annegata nel mesto lago dei pensieri perduti.
Affollato di guizzanti schegge d'inferno, raggi di luna distorti che affondano nelle liquide carni annottate del lago.
Fantasmi impazziti che vagolano in cerca di un castello in cui trovare rifugio.
Una torre, le mura, gli arcieri, la sala della tortura.
Il fuoco innaturale del rovente dolore usato per scacciare i dubbi dell'anima.
Una prigione sempre affollata.

La città dei gatti sorge sul fianco del corso di un fiume.
I millenni l'hanno scavata, non stanche mani infelici.
La corrente che scorre, eterna, da infinite distanze, l'accende d'un mormorante canto di vita.
A volte soave a volte impetuoso, lo schiaffo del vento la scuote .
E mentre il ciclo dei soli tutta l'indora, al miagolìo sognante, di notte, s'offre la rotonda beltà della ninfa d'argento.
Pigri, in quel sogno, languono i gatti, fieri della loro città.
Raccontano storie, e sogni, per tutti.
Anche per chi, indifferente, passa di corsa loro davanti.
Io stamattina non avevo voglia di correre.
Lenti i minuti, sulla riva del fiume.
Pochi passi soltanto...
Poi, una magìa, il peso dei pensieri s'è fatto leggero, il tempo sospeso.
Loro mi hanno chiamato.
Non so quanto tempo sono rimasto.
Ho fatto una foto, così, tanto per esser sicuro....

23 dic 2012

REGALO DI NATALE

Non piu' andrai farfallone amoroso - Manoscritto di W. A. MOZART
click sull'immagine per ingrandire



A Natale non si fanno forse i regali?
Cosa posso mai regalare da queste pagine che innalzi i cuori alla letizia, alla gioia, alla burla, senza dimenticare che dietro ogni cosa umana si celano le due facce della perseveranza contro gli ostacoli quotidiani che si devono scanzare e della gioia per i risultati che si raggiungnono?
Ebbene, quest'opera è proprio questo.
Mozart e Da ponte sono leggeri come dei che giocano a farci felici.
Ma anche severi e critici contro la prepotenza e l'uso del potere a fini personali.
Ma soprattutto è la divina levità della musica e del libretto.
Mi dispiace che i due video non offrano anche i sottotitoli.
Ma non è difficile trovare i testi in internet.




Un attimo di fiato.
Un giro di casa.
Una bella pisciatina.
Poi una telefonata.
E uno strufolo.
Infine... una zeppolina.

...

Ecco, ecco, arriva la seconda parte....




20 dic 2012

PILLOLE AUTOBIOGRAFICHE n. 2

HAIR - regia di MILOS FORMAN - 1979
per il film completo click on:
http://effettolunatico.altervista.org/forum/vbtube_show.php?sti=Hair-1979&tubeid=2259
Credevo che fosse un film degli anni '60.
Pensavo che il pacifismo fosse un tema da freak, che fosse stato consumato con la fine della guerra del Vietnam, nel 1975.
Ero convinto che lo spirito pacifista ed antimilitare fosse qualcosa del genere "peace, love, music" di Woodstock, che appartiene al 1969.
Invece, HAIR è un film del 1979.
Un anno che sta già per essere bevuto dai fatidici '80 di Reagan, Presidente degli Stati Uniti d'America dal 1980 al 1988, o della Thatcher, premier inglese dal 1979 al 1990...
Ma in quel momento, in quel 1979, ancora c'era un pò d'aria pura in giro.


                                                                            per il film completo click on:


Nel 1979 io avevo esattamente vent'anni.
Ero iscritto all'università, con tutte le difficoltà del caso.
Tanti cambiamenti, accadono in quell'occasione, si perdono troppe certezze, si devono conquistare nuovi ritmi di studio, nuovi meccanismi di socializzazione, ci si ritrova senza i vecchi amici, si deve ricominciare da capo...
Il 1979 non me lo ricordo troppo bene.
Nella città dove abitavo e che stavo per lasciare per sempre avevo imparato a voler bene alle pietre consumate dal tempo, alla storia, alla vecchia signora che consuma uomini e cose ma che dona loro un'anima.
Avevo imparato ad amare la musica che dava energia, i libri e le parole che danno senso alle cose materiali, i pensieri che pongono domande che hanno risposte che partono da lontano...
Avevo ormai capito che l'uomo viene da lontano, anche se ancora non avevo capito bene da dove.
Certo, non sapevo dove potesse andare, o arrivare, un uomo in formazione, come me, ma sapevo che ogni uomo può andare lontano e arrivare ancora più lontano...
Nel 1979 non conoscevo ancora nè la mia provenienza nè la mia destinazione. 
Ma mi sentivo già uno di loro, uno degli uomini, un individuo, una persona che si porta addosso la catena della coscienza, condanna e peccato di ogni essere umano...


La potenza evocativa della musica è straordinaria.
Lasciando scorrere questo nastro virtuale quanta memoria si srotola davanti agli occhi...
Pezzi di vita che sembravano sepolti...
Un'estate al lavoro al night, musica, bibite, spiriti, malinconie, stanchezze, brividi, paure, entusiasmi...
No, no, ero solo un ventenne che doveva farsi un uomo, che entrava in società offrendo il suo contributo alla famiglia...
Un'estate indipendente, la prima.
Un'estate che, dopo la maturità scolastica, mi faceva scoprire il sapore acre dell'acerba età adulta che adulta ancora non era...
La pista da ballo non l'ho mai amata, anzi, non l'ho mai calcata mai, neanche al night, in quella fatidica estate.
Manon era l'estate del 1979, bensì quella del 1980...
I 45 giri possono ingannare.
La mia memoria ancora no...

Completo ancora con qualche pillola di memoria musicale...
Il 1979 era anche questo...



E, a cavallo fra il 1979 e l' '80, ecco le musiche che ci stavano accompagnando fuori dal mondo della fantasia al potere proiettandoci con troppa fretta, ed inconsapevolmente ignari, in quello della fatidica deregulation e del liberismo.
Anche la musica cambia.
Oltre a quella delle piste da ballo nostrane, quelle che malvolentieri dovevo accudire in quelle mie lunghe notti sulla costa tirrenica, anche la pista da ballo su cui piroetta il mondo intero cambia ritmo e passo di danza.
Il dimenarsi nelle discoteche delle masse informi di ballerini senza più individualità prende un pò per volta, ma ormai definitivamente, il sopravvento sulla danza sociale.
Il consumismo sta trasformando le masse popolari che riempivano le piazze sotto le bandiere e le sferze dei comizi in pubblico televisivo, in consumatori, in "ggente".
La nostalgia che inevitabilmente è associata a molte di queste musiche addolcisce il senso amaro di quello che sta accadendo nel mondo.
Gli uomini stanno cominciando un viaggio di cui non conoscono nè la stazione di partenza nè quella di arrivo...
Proprio come me ...
...che in quegli anni ... 
... avevo solo vent'anni...




18 dic 2012

MORTE DI UN CLOWN


Nosferatu Avignon by Francesca Savinihttp://www.newspettacolo.com


L'applauso è forte, assordante.
Non è un applauso scrosciante, sincero, ma fa molto rumore.
Il vecchio premier, sovrastato dalla sua stessa immagine, fa l'ingresso nel grande studio colorato di azzurro con passo ancora agile, con cipiglio che sembra perfetto, se non fosse che uno sguardo sghembo, sfuggito al controllo consumato da vecchio attore, ammicca disperato alla telecamera puntata troppo sapientemente sulla sua figura un pò tozza.
Il sorriso professionale è feroce, mostra più del candore dei denti ripuliti dalla pasta sbiancante del dentista, affonda nell'anima, affilato, come la lama di un bisturi e addenta il cuore.
Sotto le luci, neanche un'ombra di sudore.
Il riflesso d'acciaio della pelle di laminato plastico flessibile delle scenografie, irradia, intorno, guizzi di bagliore abbagliante.
E' una bestia da palcoscenico.
Luci stroboscopiche e una musica assordante.
Uno Zelig vero e proprio.
Se non la fortuna non l'avesse fatto premier di uno Stato fantasma, avrebbe avuto una carriera d'attore straordinaria.

L'applauso è forte.
Battono le mani tutti gli invitati nello studio.
Scelti uno ad uno, tutti pagati, a basso prezzo.
Un pubblico vero, tutti uomini senza qualità.
Dall'altra parte dello schermo, sul divano, nella penombra del televisore, un brivido scuote lo strano spettatore.
Coda da lucertola, capigliatura da volpino, ghigno da scimpanzè.
Un idiota vero.
Appena il vecchio leader si è seduto, si sono materializzati vecchi fantasmi.
Di nuovo.
Rumorosi, fastidiosi, liquidi.
Un incubo.
Spaventosi.
Le mani dello strano spettatore sono giunte, come in una preghiera disperata, strette in una morsa d'acciaio, il lato lungo di una croce tra le palme, il corpo teso in uno spasimo epilettico.

Le telecamere percorrono il grande volto rifatto.
La grande maschera, familiare a tutti, del vecchio politico già occhieggia dai poster di propaganda nello Stato fantasma.
Tutto il pubblico, dai grandi schermi che proiettano le immagini dello show di incoronazione, nello sfavillante studio televisivo, è  ipnotizzato.
Nessuno ha dovuto rispondere ad alcuna domanda.
"Per chi voti?"
"Perchè voti?"
"Sei contento di votare?"
"C'è qualcuno che voteresti più volentieri che il tuo vecchio premier?"
Non ci sono domande.
Solo cabine elettorali.

Perchè voti?
Per chi voti?
Sei contento di votare?
Nella testa dello strano spettatore si accendono le domande come le caselle di un telequiz.
La sera è feroce come un incubo.
Le telecamere lo riprendono notte e giorno.
Lo scrutano impietosamente.
Un rivolo di ansioso sudore gli corre nel letto della ruga profonda aperta come la faglia di un terremoto sulla fonte larga e stanca come la piazza di una città.
Tra le mani, strette in sorda preghiera, le dita  palpano i tasti del telecomando.
Nervosamente corrono dai grani del rosario ai tasti dei canali.
Ma i tasti bruciano come i chiodi roventi della croce.
Nella bocca secca, il nome del vecchio leader muore nel silenzio della voce che non riesce a profferire più alcun suono.

Tra le fessure delle persiane, dalle finestre intabarrate nel buio della sera silenziosa, penetra solo la compagnia mostruosa della gialla luce ocra di un fioco lampione ammalato.
La nebbia nella strada diventa densa lattea corposità.
Il silenzio urla la sua solitudine.
La notte si nasconde dietro le facciate delle case cieche.
L'aria, rarefatta come gas, evapora e lascia gli alberi agonizzanti, strangolati dagli stretti cappi delle aiuole.
Il prato artificiale inghiotte, famelico, le creature che si avventurano a calpestare il finto terreno da cui sporgono solo esche avvelenate, steli d'erba sintetica.

Il vecchio premier attraversa lo studio con passo sicuro, l'abito scuro, di taglio perfetto.
Le scarpe lucide scricchiolano un poco.
L'aria è sicura e sazia.
Il sorriso, all'improvviso, si liquefa, all'angolo della bocca.
Come un rivolo di bava velenosa.
Il conduttore gli rivolge una domanda.
Il vecchio premier non ricorda più la risposta.
"Signor Primo Ministro, cosa pensa delle misure che il nuovo governo ha adottato inopportunamente - e glielo dico senza piaggeria - mentre Lei non era al suo posto, per assolvere, senz'altro, ad altro dei doveri più alti e fondamentali che la Storia Le avrà comandato?"
Il Signor Primo Ministro non ricorda la risposta.
O forse l'ha perduta.
O forse qualcuno gliel'ha rubata.
Forse una risposta non c'è.
Forse la domanda è inutile, sbagliata.
Forse il vecchio premier si pone domande inopportune, inutili, sbagliate.

Con gesto tremante della mano, il vecchio cerca di scacciare l'inclemente silenzio.
Una smorfia.
Ma non riesce a diventare il solito diabolico sorriso.
Cieca, come una finestra con le serrande abbassate, muta sulla faccia plastificata del vecchio parlamentare.
Il sangue che ne sgorga non è vero liquido.
Non è linfa reale di un uomo che muore.
Attimo dopo  attimo, il vuoto, dentro quel corpo ancora vivente, si rapprende.
Il silenzio dilaga dentro quel vuoto.
Si espande, come una vasta chiazza, nera ed oleosa.
E' l'esalazione dell'anima sintetica.
Il respiro di un polmone artificiale.
Il busto ancora eretto, ormai, non da più alcun segno di vita.
E' il monumento funebre di un mezzobusto che, inesorabilmente, la fissità televisiva ha trasformato nell'epitaffio della pienezza di sè.
E' l'intervista ad una statua di marmo pantelico, un simulacro di terrea cera, un totem che, attimo dopo attimo, si disfa in ridicola maschera.
Una sguaiata parodia del volto che, una volta, era stata la potente immagine della politica.

Il silenzio annaspato del politico in difficoltà non passa inosservato.
Neanche il conduttore s'aspetta un'esitazione così lunga.
L'occhio del vecchio diventa, a poco a poco, vitreo ed opaco.
Il leader, lentamente, si fa spenta sagoma d'un uomo impotente.
Davanti al muto video impietoso, lo strano telespettatore, imprigionato nella sua interminabile sera casalinga, è risucchiato nel vortice tenebroso delle domande lasciate senza risposta.
La cabina elettorale, dentro la scuola in cui, da bambino innocente, s'era fatto uomo immaturo, vero cittadino dello Stato fantasma, ora si trasforma, in cuor suo, in un labirinto che vortica pericolosamente.
Lì affonda lo strano spettatore.
Lì, in quel gorgo, annega la nuova preda inconsapevole del vorace mostro televisivo.
Un mostro sdentato.
Un nuovo strumento di tortura.

Il pubblico, nello studio, già mormora e rumoreggia.
Il corpo irrigidito della vecchia mummia politica, è già solo una presenza imbarazzante.
Il conduttore chiede l'intervento della regìa.
Si spengono le luci.
La pubblicità cerca, disperatamente, di riempire col suo vuoto pneumatico il vuoto dell'imprevedibile imbarazzo.
La nuda fissità della vecchia mummia parlamentare si mostra in tutto il suo laido disfacimento.

La produzione comincia a fare i conti dei mancati introiti pubblicitari.
Ci sono i biglietti da rimborsare.
E le puntate programmate da tagliare.
Il regista, nella cabina piena di bottoni, freneticamente compulsa l'agenda telefonica dello smartphone senza più energia.
Urla all'assistente in minigonna inguinale che è giunto il momento di assumere una nuova comparsa.
Occorre un nuovo politico suadente.
Che sia giovane, con sorriso ammaliante.
In  maniche di camicia.
La chioma corta e nera.
La barba incolta.
L'aria spigliatamente casual.

Il vecchio viene portato fuori dallo studio mentre è ancora in crisi confusionale.
Pochi secondi dopo, il fido segretario taglia di corsa la corda.
L'autista si era già dileguato, portandosi, con la macchina di servizio, le fide guardie del corpo.
La sicurezza, che aveva fatto la fortuna della vecchia bestia politica che aveva calpestato i palcoscenici della politica mondiale, era evaporata improvvisamente.
Come per volere di un dio crudele...
Non ha neanche il tempo di riprendersi, il vecchio leader.
Come un capobanda abbandonato da tutti, si ritrova impietosamente abbandonato da tutti.
E' restato solo.
Non può neanche comprendere il perchè.

Senza capire il senso del suo gesto, prende il coltello appoggiato sul davanzale della finestra.
Nel camerino scende l'ombra più buia.
Si appoggia la lama sul collo.
Il filo, vorace, morde la flaccida pelle plastificata.
Un denso liquido vischioso fuoriusce dalla ferita.
Il corpo del vecchio automa esegue meccanicamente il suo ultimo incomprensibile comando.
E' un liquido rosso.
Nei secoli scorsi, quel modello lo fabbricavano con un bel liquido blù.
Ed una corona sul capo.
Il vecchio automa reclina lentamente il capo.
Si spengono piano le due lampadine elettriche che illuminavano gli occhi.
In un rantolo, quasi incomprensibile, riaffiora dalla bocca l'ultima inutile risposta che s'era incastrata fra i neuroni artificiali del suo circuito di silicio.

Nel cimitero, un monumento funebre, alto quanto un fabbricato di quattro piani, si staglia fiero contro l'orizzonte.
Il sole si ferma ogni giorno ai suoi piedi per un saluto deferente.
La fotografia del sorriso del vecchio premier è larga come la piazza principale della capitale dello Stato fantasma.
Nessuno più si ricorda, ormai, più il nome del vecchio leader dimenticato.
Non sono passati più di tre giorni dal suo funerale.
Neanche i suoi più devoti seguaci hanno mai avuto la speranza della resurrezione.
Ormai è spirato e andato anche il terzo ultimo, inutile, giorno.
Il suo sepolcro resta vanamente immobile, ricolmo d'un sarcofago pesante.
La vita non abita qui.
Le guardie smontano anche dall'ultimo servizio.

... La troupe, stanca,  spense le luci.
Si mise in moto il furgone.
Restò la parola FINE, l'ultimo bagliore luminoso, ad ardere sullo sfondo della scenografia di cartapesta.
Il tempo, poco a poco, la inghiotte con difficoltà, masticando lentamente...
E alla fine non restarono che i titoli di coda ...
La produzione sta già scrivendo la sceneggiatura d'altri film.
In altri studi, si sta girando la storia d'altri Stati fantasma...

11 dic 2012

PILLOLE D'AUTOBIOGRAFIA - 1

ANNABELLA ROSSI:  LAVORAZIONE DEL TABACCO - SALENTO. 1959
PHOTO GALLERY LIGUORI EDITORE
http://www.liguori.it/foto/gallery/default.asp?isbn=3551

Sono nato a San Donato di Lecce.
Sono nato dalla terra del Salento.
Terra di olivi, grano, uva e tabacco.
Ho nel naso alcuni profumi di quella terra.
Soprattutto quello del tabacco.
Odore penetrante.
Profumo? Non so. 
Penetrato, di certo, nella mia memoria psicosensoriale.
Ho frequentato poco quella terra, più che altro da ospite, nella casa ai confini del paese, vicino alle campagne, piatte e bruciate dal sole d'estate, che è quello che ricordo.
Il freddo dell'inverno, che pure devo aver conosciuto, non lo ricordo, non ha lasciato tracce nella mia memoria.

Ricostruisco pezzetti di esistenza, di quella più remota.
Ma non faccio sul serio, non faccio altro che giocare.
Ho scoperto una fonte meravigliosamente simpatica, la storia degli anni vista dalla musica...
Ma quella storia è anche, almeno in parte lo è, la mia storia.
E la mia storia è anche la storia di tanti... 



Un pizzico di storia, quindi.
E quindi, anche un poco di storia personale.
Così, tanto per divertimento.
Io sono nato nel 1959.
Metti la musica sul piatto...
Un pò di sugo, una spolverata di formaggio...
Ed ecco qua.
Ovviamente non posso ricordare direttamente nessuna di quelle canzoni.
Ma qualcuna, anzi, più di qualcuna, è così famosa da far parte della storia musicale, da allora. 
La storia musicale mia, la storia musicale di tutti.



Salto e vado un poco avanti...
Come accadeva sui piatti dei giradischi di quegli anni...
Se faccio caso a queste canzoni, alle canzoni di questo 1965, alla memoria ... postuma che me ne resta, devo dire che questa musica è stata straordinaria.
Io avevo appena 6 anni.
Iniziavo le scuole elementari.
Immagino il mio papà e la mamma emozionatissimi, in quell'ottobre così lontano.
Ho l'immagine della scuola Nicola Sala, la nuova scuola elementare della città. Ci apriva le porte più o meno dopo Natale.
L'immagine deriva da successivi ricordi, certo, ma si accompagna a quella  delle prime mattine in cui la squadretta di tre o quattro compagnucci sui sei, sette, otto anni, percorrevano il viale, accompagnati dagli sguardi furtivamente protettivi di mamme preoccupate ed amorevoli.
Non le nostre, ma era lo stesso, appartenevamo a tutte le mamme del quartiere.
Le mamme ci lanciavano quegli sguardi, che noi non vedevamo, allora, da dietro le persiane socchiuse. 
Nessuno osò avvicinarci, mai.
Erano altri tempi.
C'era poca gente per le strade, al mattino, allora.
E al ritorno, compravamo le mentine sfuse in drogheria, o le stelle di pasta di pane ed i panini all'olio dalla signora Rosa, che, chissà, forse era la moglie del fornaio...







Un altro salto.
A dieci anni.
Facevo la quinta elementare.
Abitavo, più o meno, se ricordo bene, in un palazzo alto, di cinque piani, senza ascensore.
Frequentavo la parrocchia e cominciavo le prime passeggiate con gli amici, da soli, nelle strade della città.
Ci perdevamo, ogni tanto.
Spesso.
Ma era bello, perchè imparavamo a conoscere le avventure della vita ... o, almeno, questo ci sembravano quegli sperdimenti ...
Qualcuna di queste canzoni la ricordo bene.
Beh, ricordo... forse dovrei dire che sì, si è ... attaccata addosso come un'edera, ma un'edera odorosa, che profuma del tempo che va...
Oh, bada bene, nessuna nostalgia.
Un sacco di energia, un'eta molto strana, innocente e spensierata.
I primi pensieri scolastici, le prime lacrimucce d'amore infantile, qualche nota musicale orecchiabile, qualche canzoncina...





... il gioco continua un'altra volta (è un gioco divertente).

8 dic 2012

CANTO D'AMORE DI EDEN


EDEN


Questa città è fredda.
E' fredda la notte.
E' fredda la vita, in questa notte terribile e fredda.
E' fredda la terra, su cui sto stesa, sola, stanotte, in questa notte fredda.
Sono fredde le stelle, lontane, laggiù.
E' fredda la volta del cielo, di ghiaccio, gelida, lontana, lassù.
E' fredda la mia  mano, che l'amore mio non stringe.
E' fredda l'aria che respiro, che gela il sangue, stasera.
E' freddo il mio cuore, che diventa pesante, stasera, senza di te, amore mio lontano, volato lassù.
E freddi sono i miei occhi, Angelo, ora, che non sono più riscaldati dal caldo fuoco dei tuoi...

Angelo, arrivasti una notte, come una scintilla, a riscaldare il gelo delle tenebre, nel mio letto, da sola.
E non fui più sola, Angelo, dopo che il mio gelido giorno fu riscaldato dal calore del tuo fuoco, Angelo disceso dal cielo.
Nel mio focolare non arde più la tua fiamma, da quando sei andato via.
Poco a poco il calore che irradiò la tua presenza si è fatto freddo, in questa casa prigioniera del gelido inverno.
Invano tento di sfuggire al destino che la vita m'impose, di continuare a vivere in questa casa, dopo che passasti dal mio letto, una notte, Angelo, fredda, d'inverno.
Il mio sangue conobbe il calore del fuoco, stringendoti forte al seno, una notte, Angelo biondo venuto dal cielo.
Quando andasti, lasciandomi sola, nel letto, d'inverno, nel buio della stanza di notte, Angelo, il sangue gelò, dentro di me e il suore soffiò invano per richiamarlo al suo faticoso lavoro.
La notte si fece di pietra, Angelo, il buio, si fece denso di ombre, il cuore si fece pesante.
Ti chiamai, Angelo, t'invocai, o Angelo venuto da lontano, ti cercò la mia mano, Angelo di pietra, nel letto fattosi freddo.

Ho trascorso giorni lunghi che la colpa di esser sola, dentro di me, ha reso eterni.
Ho pianto notti senza fine, nel letto vuoto, che nessuna luna ha rischiarato.
Ho invocato la morte sopra di me, per scontare il peccato della tua presenza negata, nelle lunghe ore dell'attesa, che io dichiaro il peccato degli uomini ignari.
Ho cercato invano il tuo volto nelle immagini vane degli dei che le ingenue creature di questa terra mettono in alto, là, sugli altari.
Ho pianto nelle ore della luce resa oscura dalla tua mancanza e vegliato sui vacui fantasmi che le ore delle tenebre hanno mandato a tenermi compagnia.
Ho nutrito con la mia cura di bambina innocente la vita del tuo figlio che nel mio grembo di fiore carnoso diventa frutto maturo.
Ho tremato di fronte al peso dell'ignoto dei giorni ed a quello delle popolose notti insonni.
Ho provato il fremito della speranza, l'illusione del sogno, il gelo della disperazione.

Ora è freddo, Angelo, qui, fra le mie braccia.
E' gelo, nel mio cuore.
E' ghiaccio il mio ventre.
E' sterile la ferita di fuoco che il ghiaccio lascia, ora, sulla mia pelle immacolata, quella pelle candida che, tu Angelo, hai riscaldato per un lungo, infinito, eterno attimo di riscatto.
Ora è solo un sole spento.
Una stella morta.
Un luce che non sa più trovare vita nel buio.
Ti cerco, Angelo, tu che mi parlasti, una notte, dell'amore eterno delle creature del cielo mentre ritrovo, al tuo posto, solo la nera vana ombra che hai lasciato a tenere il  tuo posto, là, nel fondo del mio cuore, dove, ormai, l'amore scaldare non sa più.
Io ti chiamo, Angelo, ti cerco, ti invoco...
Te, ancora, vorrei, te, ancora, solo per un puro attimo d'amore...
E un simulacro di freddo marmo, Angelo, al tuo posto, ritrovo, invece, che non conosce il calore tuo del fuoco rubato agli astri del cielo...

Nei miei occhi, Angelo, ancora conduci la tua vita, dentro di me.
Io ti nutro, dentro di me.
Io divento te, ogni ora, ogni momento, ogni attimo ancora di più.
Dentro di me lasciasti il seme del tuo divino esser creatura del cielo.
Ed io, testarda figlia di questa terra gelida dell'inverno degli uomini, col mio fuoco riscaldo e nutro quel seme.
Non cadono fiocchi di neve sul mio germoglio in fiore.
Non gela la brina, su quel virgulto che giace, d'eterno, dentro il mio cuore.
Sarà figlio del dio d'Amore quel figlio che farò nascere contro ogni destino di dolore e che curerò come una madre sa fare meglio di un dio del cielo.
Sarà il figlio dell'Amore, il figlio dell'Attimo, il figlio di una parola distratta.
Sarà un figlio che non conoscerà la schiavitù del bisogno, la fame, il freddo che ora mi gela le vene.
Non conoscerà il dolore, la pena, la sofferenza.
La morte sarà per lui la naturale destinazione di un viaggio nel quale non conoscerà stanchezza, sudore, fatica.
Il mio amore lo nutrirà.
E anche quando io non sarò che altro che carne marcita nella nera terra, quella terra lo nutrirà, si farà frutto succoso, dolce tralcio di vite, fontana di nettare, fiume d'ambrosia.

Mio Angelo del cielo, questo io sono.
Dolce carne di bambina che il tempo non può trasformare in inerte polvere da consegnare nelle mani della morte.
Questo tu hai visto, senza conoscere, in una notte d'inverno che credevi fredda come il vento che correva per le pianure desolate.
Non hai compreso che il fuoco di una bambina non si può spegnere, una volta acceso.
Non hai creduto che il tempo potesse fermarsi dinanzi all'innocenza, per inchinarsi, umile servitore di un sogno che si sta facendo carne e sangue per l'eternità.
Non hai calcolato che il seme che cade in  una terra come la mia non può più conoscere le spine, i chiodi, la croce, i chiodi...
La sete, la fame, la morte si prostreranno dinanzi al figlio del mio amore e tu non ha saputo vedere un destino di gloria così alto.
Sei fuggito, sei andato, sparito nel nulla, nel vuoto, nel niente da cui eri uscito, in quella notte nera gelida d'inverno...

Nel mio letto di ghiaccio, da sola, mi rigiro disperata.
La mia carne brucia ancora.
Aspettandoti ancora.
Per raccontare a te, Angelo, questa mia storia d'amore.
Per farti mangiare ancora il frutto del mio albero.
Per offrirti il mio pomo maturo, la mia mela, la mia erba mandragola, la mia pianta dell'eterna giovinezza, il mio frutto della conoscenza.