28 giu 2013

CHE CERCHI?

Antonio CANOVA - AMORE E PSICHE


“Che cerchi ?”
Sussultò, udendo, Gabriele, la voce.
L’Angelo si voltò lentamente.
Confuso, era il suo sguardo.
La pupilla, rossa, doleva, bruciando.
Diafano, il volto, candido e puro.
Il cuore leggero, innocente.
Spalancata aveva, un poco, la bocca.

“Perché piangi, povero Angelo ?”
Sussultò, Gabriele sentendo le lacrime.
La bimba lo fissò stupìta e innocente.
Avvampava, l’angelico sguardo.
Ardeva, di brace, la pupilla scarlatta.
Diafana, in volto, la gelida maschera.
Il cuore batteva, semplice e puro.
Spalancata la bocca, piano, gemeva.

“Sei solo, Angelo puro ?”
Sussultò, Gabriele, sognando.
Si guardarono, angelo e bimba.
Dischiuse le ali, la potenza del Cielo.
E si schiuse anche il bocciolo di rosa.
Diafana, si nascose, la timida luna.
L’amor celestiale infiammò le creature.
Spalancate, gemevan, mute, le bocche.

“Sei ancora qui, Angelo mio ?”
Sussultò, tremando, Gabriele disfatto.
Lo carezzò dolcemente Maria.
Ribolliva di vita il suo ventre di donna.
L’angelica spada aveva acceso quel fuoco.
Il sole, diafano, di lungi guardava.
Erano arsi d’amore i due corpi innocenti.
Gabriele cercò ancora quella bocca di rosa.

“Dove sei Angelo?”

Ebbe un sussulto alla voce tonante di Dio !

P.S. Questo post, che qui è stato notevolmente rivisto, è stato pubblicato il 10 febbraio 2009 sul blog della repubblica indipendente

25 giu 2013

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Michelangelo - IL GIUDIZIO UNIVERSALE (particolare dell'affresco nella Cappella Sistina, Roma)



Non so perché ma nella cella mi sento bene.
La certa consistenza delle mura, solide e spesse, mi protegge. 
Non ho mai avuto una casa così sicura.
Il vento gelido dell'inverno, come un rapinatore entrava da sotto la porta di casa mia, là, ai limiti del bosco, sù, in montagna, lontano dal paese, dove finisce il mondo degli uomini e comincia quello delle bestie.
E l'umido s'introduceva di soppiatto attraverso le finestre divelte, che non avevano neanche scuri e vetri o attraverso le pareti della vecchia catapecchia rabberciate alla meglio.
Era naturale avere freddo, là, nel buio delle lunghe notti senza luce, come avere paura per le colpe non ancora commesse e le condanne non ancora scontate.
Erano spazi vuoti,  le stamberghe dove ho passato lunghi inverni ed estati secche ad aspettare, senza avere alcuna difesa, che accadesse finalmente qualcosa, che il destino di un pover'uomo senza virtù si compisse in tutta la sua crudele indifferenza.
Più che una casa, era una trappola.
Più che un rifugio, un luogo di espiazione.
La cella é certo un luogo rassicurante.
Qui, non può accadermi niente.
Qui, il pericolo viene lasciato fuori da quella porta pesante.
Vivo protetto da un numero infinito di sentinelle, una dietro ogni porta che mi separa dall'uscita della prigione! 
Neanche il re, nel suo meraviglioso palazzo reale, ha tanti secondini a montargli la guardia.
Si.
Certo.
Anche qui, si può dire, il freddo e poi le malattie e la fame...
E le bestie notturne, gli scarafaggi, le cimici, i pidocchi...
Ed anche gli interrogatori, continui, si, e le torture quotidiane...
Ah, quel maledetto Inquisitore!
E le sue crudeli tenaglie, le braci roventi, le corde che segano la pelle, le botte che spezzano le ossa...
E le catene, che pesano più dei peccati che mi vorrebbero far confessare...
Si anche qui, non si può dire che la vita per un povero morto di fame sia proprio una passeggiata.
Ma un povero cristo, uno come me, uno nato senza un nome e senza un padre, uno che non ha mai potuto esibire i segni di una protezione o di un nobile patrocinio, uno senza mestiere, uno nato schiavo, legato per sempre alla terra del suo padrone come l'albero di un bosco di montagna, uno condannato a vivere di espedienti e soggetto alle volubilità degli uomini e delle stagioni, uno così, qui, in cella, uno come me, che cosa ha da temere più di quanto non abbia da temere là fuori?
Qui, dentro, almeno, a ben vedere, il pericolo lo si può  riconoscere facilmente.
Porta la divisa con i pennacchi e gli alamari.
Si fa annunciare battendo forte alla porta.
E quanto è solida, quella porta benedetta!
Nessun mostro potrà abbatterla mai.
Qui, dentro la cella, di notte, di fianco al mio giaciglio, i fantasmi non possono entrare, non mi possono  puntare il coltello al collo per rubarmi l'anima.
Quelle creature spaventose devono restare fuori da questa porta di legno pesante sorvegliata da frati generosi e vigili che pregano per la mia anima e che con le orazioni che alzano al cielo di continuo sudano e faticano soltanto per redimere la mia vita, piena di colpe e di peccati.
Ci pensano loro a tener fuori tutte le cattive creature che abitano le lande desolate della notte.
Loro devono vigilare, di notte, mentre io, in pace dopo le fatiche della lunga giornata, me la dormo della grossa.
Loro devono lottare per me, duramente, mettendo a rischio le loro vite e le loro anime pietose, per impedire che i demoni cattivi li deprivino del bottino della mia anima.
Sono loro che ogni notte, cupa e tempestosa, devono montare per me la guardia, neanche fossi diventato il più prezioso dei tesori di questa terra.
La porta solida sta sempre lì.
Io la guardo, ogni volta che sento il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di saldo.
Sta sempre lì, sui suoi cardini arrugginiti e cigolanti.
Se ne sta fissa per ore, con il catenaccio serrato, la serratura ben stretta.
Se ne sta ferma, immobile, fissa, custode della mia incolumità e vedetta contro ogni pericolo, per ore ed ore, giorni, mesi, anni, secoli.
Sta lì per sbaragliare l'eternità, che lentamente, scorre, fuori di qui, consumando le cose ed il mondo.
Lei se ne starà lì, lo so, per sempre.
Vigile ed attenta, premurosa, caritatevole, benevola e protettiva. 
Come la porta di un tempio.
Ed io, qui, venerato come un dio. 
Porto addosso il mio camice come una tunica sacra.
Le mie mani sono incatenate in un gesto di preghiera eterna a cui Dio  potrà sottrarsi ed alla quale Egli dovrà, presto o tardi, decidere di sottomettersi.
Mai.
Mai prima d'ora, a pensarci bene, la mia posizione ha avuto tanto rilievo per l'amministrazione della società.
Qui, ora dovrà quindi precipitarsi il medico, se mi ammalo, o il confessore, se grido che voglio mondare la mia anima dal lordume dei peccati, o il giudice inquisitore se bisbiglio nell'orecchio ad una guardia ubriaca che voglio raccontare come avvenne quel certo fatto in quella lontana città...
Accorrerà ai miei ordini anche il boia, se decido di confessare tutti gli stupri o gli assassini che ho perpetrato nei miei giorni là fuori.
E, subito, appresso a lui, correrà, attaccato alle sue sporche braghe di tela, anche il becchino, perchè neanche ad un impiccato potranno negare una sepoltura, là, nel camposanto, là fuori.
E come spalerà, solerte, e morto di freddo, in una gelida alba d'inverno, il povero beccamorto, mentre io, a quell'ora, me ne starò beatamente addormentato a fare altisonanti sogni di gloria.
E dovrà darsi da fare anche quel presuntuoso che abita in chiesa, per aspergere il mio sudicio corpo con la sua puzzolente acqua benedetta, perchè anche d'un condannato a morte devono avere pietà.
E anche il Principale.
Si anche Lui.
Anche il Datore di lavoro di tutti.
Anche lui, questa volta, dovrà obbedire ai miei ordini.
Si dovrà sbarazzare delle sue moltitudini di angelici cori e montare in fretta il palco per il mio giudizio finale.
E sfogliare le pagine del suo Libro gravoso per leggere il breve capitolo che vi fu scritto per me.
E infine, dovrà spiegarmi perchè, avendomi messo al mondo per Sua insindacabile scelta, a me sia sia stata assegnata la grama parte dell'ultimo dei derelitti.
Si, io gli chiederò il conto.
Sarò impietoso e inflessibile.
Come Lui lo è stato con me.
E, alla fine, a Lui non resteranno difese.
Mica vive, come me, Lui.
Dietro una solida porta di quercia!

24 giu 2013

GABRIELE

Gustave DORE' - ENIGMA


… era veramente difficile, per Gabriele, riuscire a individuare dove abitava Maria.
Cominciava ad avere paura, anche se non aveva mai conosciuto, prima, paura.
Temeva di non riuscire a compiere la sua missione.
Un guaio!
E cosa sarebbe successo se non fosse stato in grado di portare la notizia? di dare il suo annuncio? di annunciare al mondo l’inizio di una nuova epoca?
No, non poteva accadere.
Non poteva essersi smarrito su quella terra inospitale.
E non poteva ritardare !
C’era una missione da compiere, un compito eccezionale, un mandato straordinario.
Doveva portare a termine la funzione che gli era stata affidata.
Doveva.
Per forza !

Diventava difficile.
Diventava sempre più difficile compiere la sua missione.
Quella Terra, chiamata Santa da sempre e da tutti non gli sembrava niente affatto Santa.
In lungo e in largo cercava.
Da lungo tempo cercava.
Cercava con gli occhi e cercava con lo Spirito.
E cercava con tutti i suoi sensi di angelo.
Cercava e cercava e non trovava proprio niente di Santo.
Né innocenza, né candore, né amore sconfinato…
E vedeva.
Vedeva miseria, tutto attorno.
E vedeva sofferenza.
E miseria, sofferenza e sangue.
Dappertutto.
E vedeva uomini piegati.
Uomini feriti.
Uomini  con le mani sporche di sangue.
E vedeva bambini.
Vedeva agnelli.
Vedeva vittime innocenti.
Vedeva templi.
E altari.
E coltelli affilati e sporchi e insanguinati.
E vedeva donne.
Vedeva madri.
Vedeva, e non voleva vedere, corpi violati, cuori straziati, occhi pieni di lacrime.
Vedeva la Terra del Dolore.
Non vedeva una Terra Santa.

Maria era una di loro.
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Piangeva per gli uomini caduti.
Piangeva per i corpi dei padri sotterrati nella polvere sozza di sangue.
Piangeva per i cuori dei fratelli dilaniati dall’odio.
Piangeva per gli amanti che non potevano più amare le loro donne, in quella Terra Santa solo di nome.
Piangeva e tremava.
Piangeva perché il suo dolore ancora conosceva il sollievo del pianto.
E tremava perché i tuoni delle armi fanno tremare.
Lacrime.
E corpi macellati.
Lacrime.
E altari.
Lacrime ed agnelli sacrificati.

Gabriele sentiva per la prima volta l’odore di Morte.
Era l’odore che sovrastava la Terra.
La terra chiamata Santa da sempre.
Terra Santa.
Così chiamata da tutti.
Gabriele vedeva, per la prima volta, il colore rubizzo del sangue.
Vedeva l’oro del cielo farsi rosso di sangue al tramonto.
Vedeva il fiume dorato portarsi via i corpi come zattere morte.
Gabriele cercava una donna chiamata Maria.
Aveva un annuncio da darle.
L’annuncio !
La nuova Epoca che stava per nascere.
Gabriele cercava Maria.
La cercava, là, in quella Terra che chiamavano Nazareth.
Lì, la cercava, a Nazareth.
Lì avevano inviato Gabriele a cercare una povera innocente chiamata Maria.
A Nazareth.
Cercava la Purezza nel cuore di donna chiamata Maria.
La Purezza di una semplice donna.
Una donna, forse, una madre.
Ma a Nazareth vedeva solo cuori di pietra e templi scrostati.
Voci e urla e terrore e odio…
E Piaghe …
E Dolore…

Gabriele cercava Maria.
Chiedeva a quelli che incontrava per strada.
Si fermava e chiedeva, cercava e guardava.
Sguardo innocente.
Cuore senza peccato.
Gabriele vedeva solo volti di pietra.
Maschere dure solcate da rughe profonde.
E cuori sordi.
Tetre celle senza luce.
Prigioni.
Abitate dall’odio e dalla morte.
E vedeva fiumi salati di lacrime.
E volti rigati di pianto.
E vedeva le mani.
Mani da contadino e da pastore.
Rozze mani da bastone e da coltello.
Mani da falce, da sacrificio, da sangue.
Mani dure e senza pietà.
Mani, serrate, convulse, livide, stanche.
Mani riverse e spossate.
Mani cadute, dimenticate, abbandonate, perdute.
Mani in grembo, senza speranza.

Tutto era diverso da come gli era stato prescritto.
Tutto era diverso da come gli era stato spiegato.
Facile.
Tutto doveva essere facile.
Tutto gli era stato descritto per compiere una missione di pace …
Ed era volato via sicuro.
Aveva spiccato leggero il suo volo di messaggero innocente.
Ma ora sentiva il peso della stanchezza.
Le sue ali s’erano fatte pesanti.
Un colpo si sentì echeggiare, lontano.
Sulle sue candide ali si schiantò uno schizzo di sangue
Si confusero gli occhi.
Si confuse la mente.
Si confuse la perduta certezza.
La Terra gli mancò sotto i piedi.
E vide.
L’Inferno.

Laggiù …

P.S. Questo testo, qui rivisto e modificato, è stato pubblicato per la prima volta il 24 gennaio 2009 sul blog della repubblica indipendente mentre giungevano le notizie relative l'azione militare israeliana chiamata "piombo fuso", avviata  in reazione al ripetuto lancio di razzi da parte di Hamas sulle città dello stato ebraico, ed ai negoziati di pace di Sharm el Sheikh.

21 giu 2013

FIABA DEL CAVALIERE VITTORIOSO

photo by Pierperrone


Abbassò gli occhi indirizzando lo sguardo intenso e profondo verso l'immenso spazio che si spalancava lì davanti.
Rimase immobile in quella posizione a lungo.
Il tempo, breve, o lungo, non si seppe mai, si fermò, quasi, interminabile.
Fu un tempo che non conobbe misure, ostacoli, barriere, limiti...
Fu un tempo che sembrò non dovesse avere mai fine.
Fu, quello, tutto il tempo possibile, tutto il tempo che si può avere a disposizione per effettuare un'esplorazione accurata dello spazio sconfinato che aveva dinanzi. E sotto. E intorno...
Ebbe tutto il tempo che aveva richiesto.
Ebbe tutto il tempo necessario.

Lo sguardo penetrava aguzzo e acuto nello spazio circostante che non opponeva resistenza.
Anzi, sembrava che lo spazio non stesse aspettando.
Sembrava che non avesse altro desiderio che essere accarezzato in profondità da uno sguardo coraggioso. Si mostrava così com'era, nudo fin negli intimi recessi, felice di offrire alla vista le intimità più nascoste.
Era un tempo che scorreva come un fiume indifferente.
E pigro.
Era un tempo paziente, accurato e preciso.

Ebbero l'intera notte senza fine.
Fu tutto il tempo necessario.
Trascorse tutto il tempo che occorreva.
Quegli occhi tondi e neri e la disponibile pianura dello spazio senza limiti portarono fino in fondo, dolcemente, l'amplesso esplorativo che avevano desiderato tanto a lungo.
Fu un dolcissimo atto d'amore.
Abbracci e carezze unirono i loro corpi.
Lo sguardo acceso e febbrile esplorò con le sue dita di fuoco ogni centimetro delle valli e dei monti di quello spazio aperto, che dolcemente, spontaneamente offriva la sua natura, grata e accogliente.
Il gesto di conoscere che compivano quegli occhi infuocati di passione fecondava il nulla confuso del caos su cui cadeva la pioggia di luce che proveniva dagli astri remoti dell'universo.
L'oblìo dell'incoscienza si denudava senza pudore.
Offriva il proprio corpo tumido e disponibile al martirio della conoscenza, alla parola, al racconto, al ricordo, alla memoria ...
Entrando nel regno sconosciuto della memoria, nasceva il tempo d'amore delle cose e finiva quello tirannico del nulla.

C'era stato un altro mondo, prima.
C'era stato un mondo conosciuto dagli occhi di tutti, prima della caduta, crudele, dell'oblìo su quel mondo.
C'era stato un universo fatto di infiniti minuscoli universi perfetti.
Era stato il mondo minuscolo delle cose.
Fatto di eco-sistemi perfetti e coerenti, di oggetti più grandi e più piccoli, perfettamente integrati e coniugati, Un mondo oggetti utili, tutti invariabilmente necessari, tutti indispensabili allo svolgimento di qualche funzione.
Erano tutti composti d'infiniti dettagli, di particolari che a prima vista potevano apparire insignificanti, ma che, pure, invece, erano fondamentali per tenere unito in un insieme unico il microcosmo microscopico di ogni cosa.

Era stato il tempo delle cose.
Lo sguardo degli uomini era stato minuzioso in quel tempo.
Con cura, il gesto degli occhi estraeva meticolosamente dal groviglio del creato indistinto, le cose, una per una.
Si compiva, quel gesto, con straordinaria attenzione e maestrìa, con professionale competenza tecnica ed accurata precisione.
Era un processo di lucida razionalità che dava vita alle cose con la meticolosa precisione di una madre che, nel proprio grembo generatore, gestisce la ripartizione ordinata delle cellule embrionali, che vigila su ogni successiva generazione di frammenti di vita preordinando e programmando ogni successiva mutazione cellulare in modo da assicurare la perfetta composizione dell'organismo che, alla fine del processo, viene messo al mondo.

Allo stesso modo, lo sguardo estraeva le cose dall'indistinto nulla.
Prima lo fecondava con il vivido liquido seminale.
Poi, via via, governava il processo evolutivo delle cose.
Ordinava ogni dettaglio.
Particella per particella.
Seguendo un disegno esatto, attuando un progetto unitario e coerente del tutto.
In quel modo ad ogni cosa era assegnato un posto fisso e definito, una regola fissa di comportamento, una legge eterna di funzionamento.

Non si sa perchè, ad un certo punto si pensò di dare un nome a quello sguardo creatore.
Si fecero ipotesi su ipotesi.
Finchè fu scelto un nome ritenuto altamente significativo.
Dio.
Piano piano si decise che una creatura fantastica e perfetta, onnipotente e suprema, dovesse nascere ed avere una vita sua propria, una propria volontà, un proprio disegno ed un obiettivo definito secondo il proprio libero ed incondizionato arbitrio.
Si pensò anche che dovesse avere un'estetica ed una morale.
Insomma si decise di assegnare un Destino alla forza creatrice pura e assoluta.

Non si sa perchè quella decisione fu presa.
Nè si sa da chi fu effettivamente presa.
Infinite generazioni di sguardi sono passate nel frattempo.
E nessuna volontà divina è riuscita a mettere ordine al caos che si cela in quello spazio amniotico e ancestrale.
Lo spazio, anzi, dinanzi ad ogni gesto creativo, ad ogni volontà di ordinamento, dinanzi a ciascuna delle innumerabili generazioni di curiosi sguardi vivificatori, anzichè ritirarsi, restringersi, o almeno diventare poco a poco più angusto e familiare, s'è fatto sempre più impenetrabile, intricato, vasto, ampio, sconosciuto, ostile, dilagante ...
Come alimentato da un'opposta forza creatrice, divina e uguale, ma di segno contrario, come il bene si contrappone al male, più il gesto creatore del dio degli uomini cercava di far suoi i possedimenti della conoscenza, più quella sprofondava in anfratti inaccessibili, correva a nascondersi, retrocedeva come ricacciata da una forza occulta ...

Lo sguardo a cui era stato dato il nome di dio ed un destino da realizzare, la missione creatrice da compiere a spese dello spazio si rivelò un vero fallimento.
Non solo al procedere dello sguardo-dio, che avanzava inesorabile come sospinto dalla carica di mille e mille cavalieri crociati, l'altro, il terreno di conquista, lo spazio caotico, la terra santa, retrocedeva, si sottraeva, si inabissava nelle tenebre e nell'ignoto.
Accadeva anche che là dove quello sguardo-dio si posava rapinoso imponendo la sua verità, da ogni presupposto di quella verità germinassero mille e mille radici eretiche ed eterodosse, affette da devianze ed eterodossie che minavano ogni appoggio e creavano inciampi e catene ed inganni che immediatamente restituivano all'oblìo ciò che era appena stato sottratto al vuoto.
Così andò avanti il tempo per un'eternità buia ed oscura.
Così, nessun uomo provò a misurare il tempo in questa era di tremenda barbarie.

La stanchezza sopraggiunse, ad un punto, come una nebbia grigia.
Calò come una cortina fuliginosa, un velo pietoso, una polvere sottilissima forse cosparsa da generose divinità sovrannaturali nascoste nell'ignoto che s'inabissava sempre più profondamente nel nulla.
Si nascondeva lo spazio a quell'incedere prepotente dello sguardo per far cessare la violenza del Destino.
Si frapponeva, fra l'uno e l'altro dei contendenti della guerra santa, la dimensione del vuoto, dell'esser nulla del senso, della mancanza di realtà e di significato.
Le cose che apparivano per un attimo sotto la luce dello sguardo-dio scomparivano subito dopo nel nulla dello spazio tenebroso.
Restavano echi cupi che rotolavano come tuoni nel cuore delle nubi nere che avvolgevano l'intero mondo del visibile e dell'immaginario.
Saette di fuoco ogni tanto dardeggiavano sinistramente in lontananza, segnale di un'ostile resistenza, di una ribellione che si organizzava per vendicarsi dello stupro che veniva perpetrato di attimo in attimo contro quella natura indifesa ed innocente distesa per l'intera immensità degli spazi.

La stanchezza, fortunatamente, la nebbia, la coltre di nuvolaglia, ebbero l'effetto, con il passare del tempo e il mancato accumulo della memoria, di far cessare quello scontro titanico che si stava preparando nelle profondità della coscienza.
Lo sguardo-dio dimenticò la ragione del suo indagare appropriativo.
Gli uomini cessarono di chiamare dio al loro banchetto.
Lo spazio smise di nascondersi.
Il tempo, quindi, poco a poco, divenne padrone del mondo.
Cominciò la sua era.
Lì, sul limitare della faglia che divide il mondo del giorno, in cui vive la fiera dello sguardo, da quello della notte, in cui si nascondono i sogni che sfuggono ad ogni conoscenza.

Il tempo.
Cavaliere solitario e indomito.
Trionfatore di ogni tenzone.
Fiero cipiglio.
Occhi di ghiaccio e cuore di fuoco.
Là, sul limitare del dirupo, ora, si sporge vincitore.
Stava lì da intere eternità, eoni di secoli, ere e generazioni.
La testa voltata di fianco.
Aveva abbassato lo sguardo, prima di trafiggere con i suoi occhi il piano che si distendeva ai suoi piedi.
Occhi che erano penetrati nel grembo della natura per ingravidarla.
Occhi che ebbero prole numerosa e formicolante.
I giorni.
Le ore.
I lunghi istanti senza termine che abitano nelle caverne del cuore...
E ora, lui, padrone e vincitore, se ne sta lì.
Governatore del tutto.
Inesorabile padrone.
Tiranno e generoso.