30 mag 2013

INTERROGATORIO

George GROSZ - INTERROGATORIO 


Non si può dire che la nuova vita non  gli facesse bene.
Un regime più ordinato, con cadenze, ritmi e modalità ben collaudati, così lontano dall'abulìa a cui s'era ormai assuefatto.
La sveglia, al primo mattino, quando ancora per il resto dell'umanità il giorno non era ancora sorto.
E poi le docce, certo, minuti contati, acqua fredda o bollente e privacy zero.
La passeggiata in cortile.
L'interrogatorio.
Il rancio.
La branda.
L'interrogatorio del pomeriggio.
L'ora d'aria.
La televisione.
I compagni di cella.
Piano piano s'era cominciato ad abituare.
Aveva anche ricominciato a dormire.
Certo, ancora poco e senza un il vero sollievo del riposante abbandono dei sogni.
Ma almeno, le ore più nere, quelle in cui l'angoscia mostra i suoi denti più acuminati, la sua maschera più orribile, quelle, adesso, passavano in fretta.
Era diverso, lui, dai suoi compagni.
Per loro era una prigione.
La vita dietro le sbarre era una tortura.
Le loro vite ferine e nomadi venivano ingabbiate nello spazio angusto di una cella, asfissiante.
I loro spiriti indomabili di belve selvatiche venivano costretti dietro le sbarre di gabbie da zoo.
I secondini lanciavano i loro ordini bruschi, come i bambini crudeli lanciano le noccioline alle scimmiette dentro allo zoo.
I suoi compagni, i galera, diventavano bestie.
Jordi, invece, era diverso.
A lui, abituato ad una vita informe ed amorfa, l'ordinata organizzazione della comunità, in prigione, sembrava ispirata dalla stessa frugale fratellanza di un convento di clausura, o di una disciplinata caserma.
Un formicaio nel quale ad ognuno era assegnato un ruolo preciso.
Ad ogni attimo della vita era assegnato un ruolo preciso.
Anche il tempo per cacare.
E quello per mangiare.
E sgranchirsi le gambe, e battere le braccia in cortile, e rispondere alle domande del sostituto procuratore, e lavare per terra, e pulire il pitale della cella.
E anche dormire.
Tutto obbediva ad un ritmo perfetto.

Ma per Jordi non era questa la gioia, si la gioia, se non addirittura la felicità più grande che la vita di cella gli procurava senza volerlo.
Si sa, per quel relitto vivente, rifiutato impietosamente anche dal mostro della morte, la vita era un peso insostenibile e grave.
Quello che gli pesava di più, anche se sfuggiva alla sua coscienza incosciente, era quel doloroso compito di dover decidere ogni cosa da solo.
Non si può vivere senza decidere ogni cosa da solo.
In genere è così la vita per tutti.
Una sequenza di atti volontari che determinano lo scorrere dei fatti.
Svegliarsi al suono di una sveglia che una volontà inflessibile ha fissato ad un'ora ogni volta fatale.
Alzarsi e decidere di far colazione con qualcosa che si è deciso di cacciare fuori dal frigo.
Decidere di lavare la camicia o i pantaloni.
Investire energie capitali per stabilire in che ordine mettere le inutili ore del giorno che non passano mai.
E, il più gravoso di tutti i doveri, la più dolorosa delle decisioni quotidiane della vita.
Decidere di por fine al giorno che agonizza da qualche parte laggiù, fuori dalla finestra semi oscurata dalla sera.
Decidere che la sera s'è fatta già notte e che è l'ora d'andarsene a letto.
Uccidere il giorno.
Partorire, tra i travagli, la notte.
E' doloroso.
Doloroso, vivere.
Doloroso come cavarsi gli occhi ogni volta.
In galera, Jordi, di quel peso veniva alleviato.
Era questo a fargli più leggero l'animo, in quei giorni che si potrebbero pure dire sereni.
Poter vivere ad un ritmo stabilito da altri.
Sirene, fischietti, percorsi esatti.
Comandi, obblighi, ordini, prescrizioni precise.
Divieti, proibizioni,  impedimenti e dinieghi.
Una vita senza alcuna libertà a cui dover sottostare.
Una vita, finalmente, senza lacuna responsabilità.
Era la vita ideale, per Jordi.

Come si può immaginare, i soli momenti difficili, per Jordi erano quelli dell'interrogatorio del sostituto procuratore.
Le sue domande erano ogni volta precise, taglienti, circostanziate, chirurgiche, verrebbe da dire.
Asettiche, sanitarie, sterili, oggettive.
Esattamente mirate al cuore del problema.
Acute, puntute, appuntite, acuminate e per questo, laceranti, e urticanti, nella mente e sull'animo del povero Jordi, incapace di individuare un punto preciso al quale attaccare alcunchè, fosse pure uno straccio di risposta che potesse essere ritenuta soddisfacente da quell'omino curioso che si faceva chiamare "Vostro onore" oppure "Eccellenza".
Ogni dettaglio di cui chiedeva conto il magistrato era accompagnato dal rimprovero muto che il torvo sguardo del maresciallo dei carabinieri lanciava verso l'interrogato, seduto davanti al tavolo di legno un pò smozzicato al centro della stanza degli interrogatori, nelle carceri giudiziarie dove avevano portato Jordi, imputato in attesa di giudizio.
Il dolore di Jordi era sincero, in quei momenti.
Lancinante ed acuto.
Il giudice, verso il quale provava una simpatia istintiva ed un rispetto profondo, era un giovane molto curato, dagli abiti eleganti e portati con aplomb ineccepibile.
I colori erano sempre perfettamente intonati, camicia, cravatta ed abito in tinta.
Le lucide scarpe e la cintura dello stesso colore.
Barba curata.
Lisci capelli azzimati.
Il profumo di dopobarba di lusso e sapone ristagnava nell'aria impregnata del fumo stantìo che i secondini spandevano per tutti gli uffici.
Chissà perchè i secondini fumano sempre, anche quando hanno già spento i mozziconi delle loro sigarette puzzolenti.
Per uno che spegne ce ne sono mille altri che hanno in bocca una spina rovente.
E quante sono le migliaia di guardiani, sparpagliati nelle stanze, nascosti dietro gli angoli, appiattati negli uffici, di guardia nei cessi e nelle cucine?
Il giovane procuratore faceva domande pertinenti a quella verità così facile che solo lui, il povero Jordi si attardava ad ammettere.
Glielo dicevano, a lui, i due interroganti solerti.
Guarda, che prima o poi confesserai.
Ti hanno già visto.
I testimoni hanno deposto.
I verbali sono stai composti.
Il giudice ti condannerà di sicuro.
Ma, a parte il sottile piacere che gli dava quest'ultima frase, che per loro doveva essere una minaccia angosciosa, ed invece, per lui, era come un piccolo dono imprevisto, il resto, l'acuminata precisione delle domande, provocava un dolore indicibile.
E non perchè, some sembrava agli inquisitori testardi, lui fosse costretto a mentire per nascondere l'evidenza d'un efferato omicidio di periferia.
Il vero problema, nell'animo sfatto di Jordi, era il buio ch'era calato in quell'attimo, quella sera, sulla balaustra bassa del ponte.
A lui era mancato ogni sostegno, in quel momento in cui aveva perso coscienza.
Non c'era, nella sua mente, una realtà da poter ricordare.
E quindi non c'era neppure una verità da poter raccontare.
Ma a chi poteva andarlo a dire un fatto così?
Chi gli avrebbe mai creduto?

Il dubbio lo assaliva quando ritornava in cella, disfatto.
Dopo l'interrogatorio, al quale, per il vero, non venivano applicati metodi duri, lui era sempre uno straccio.
Gli doleva, sinceramente provava dolore, per non essere in grado di soddisfare la morbosa attenzione che quei due aguzzini, curiosi, mostravano ogni volta nei suoi riguardi.
Non poteva rispondere, come pure avrebbe voluto.
Compativa lo sforzo che quei due evidentemente compivano per cercare d'aiutarlo ad estrarre dalla mente confusa un sia pur pallido ricordo di cosa era accaduto quella notte, laggiù.
La periferia era nera.
Questo lo ricordava bene. 
Nera come la notte.
Solo il biancore gialliccio di qualche fanale sperduto che chiedeva perdono per esser rimasto acceso ad illuminare quel nulla che chiamavano mondo.
Nera era anche la sua memoria.
Una pellicola che non era stata impressionata dalla luce brillante della coscienza.
L'otturatore non era scattato.
Anzi, lui sentiva che la vita l'aveva lasciato, ad un certo momento.
Ed era rimasto solo al mondo, solo davvero.
In quei momenti poteva pure essere morto.
E invece qui due dicevano che c'erano testimoni che avevano visto.
Ma visto che cosa?
La scena di un film lo perseguitava, allora, per alcune ore.
Uno di quei film di serie B.
Sangue, sesso, violenza.
Ed era lui il protagonista.
E poi lei.
La puttana sbrancata dalle sue mani feroci.

"Cosa hai fatto e perchè?"
"Cosa cercavi?"
Lui sentiva il sesso ingrossarsi, quando cercava di ricordare il corpo di quella stretta, inerte fra le sue braccia assassine.
Era eccitato dalla testimonianza di tanta potente forza omicida.
Forse aveva passato delle ore ad infierire su quel corpo che certamente doveva aver lasciato dilaniato sotto al ponte, nell'ombra notturna che s'annera più nera, dove la luce non può arrivare neanche per sbaglio.
Un vero mostro dalle membra d'acciaio.
Un Terminator vendicatore della vita s debito che gli aveva lasciato sua madre in eredità.
Un Rambo di periferia, acre e senza pietà.
Si placava solo dopo, quando il flaccido suo fluido seminale lo lasciva insozzato, ma soddisfatto, in deliquio, a fantasticare sulle sue erotiche gesta da immaginario Siffredi nell'ombra.
Avrebbe voluto aiutare i due pubblici ufficiali a stendere il rapporto della sua confessione pubblica ed irrevocabile.
Ma non voleva prendersi la responsabilità di lasciare a futura memoria una verità di cui, sentiva, mancava la pesante consistenza del ricordo cosciente.
Si sentiva una assassino precario.
Ecco, proprio come quando ti fanno lo scherzo di toglierti la sedia sotto dal culo quando ti stai per sedere, a lui, l'incertezza del ricordo toglieva dalla coscienza la sicurezza fondata d'esser stato, per un momento, almeno, soltanto, l'uomo che ha deciso la vita d'un altro suo simile.
Il gesto supremo restava impigliato nelle secche del dubbio.
La sicurezza d'esser esistito almeno una volta per compiere un gesto assoluto e fatale, d'esser stato mano del destino, autore del grande libro divino, ecco, tutto naufragava nella sua mente, come capita all'ubriaco che si sveglia al mattino, incerto anche d'essere al mondo.
Certo, lui non riusciva a pensare cose così complicate.
Ma nel momento in cui stringeva il suo cazzo, aggrappato a quell'unica solidità passeggera che la vita gli aveva donato in quei giorni così fortunati, ecco, allora, quello che sentiva nell'anima era proprio quel senso d'impotente incertezza su tutto.
Un attimo dopo, fra le mani stringeva un flaccido verme, viscido e vile.
La disobbedienza del suo volubile corpo era la manifestazione della disobbedienza della sua memoria impotente.
Oh, come avrebbe voluto mettere un segno sotto alla confessione di quell'assassinio che, raccontavano, era stato così atroce ed efferato!
Oh, quella sarebbe stata la certificazione della sua forza potente.
La sua attestazione oggettiva d'esistenza in vita.

E, invece, il destino crudele, lo aveva iscritto alla lista dei morti presunti.
A lui rimaneva solo il tempo ristretto concesso a quei poveri proscritti per dimostrare di non esser morti davvero.

29 mag 2013

LA VITA

photo by Pierperrone


Nella notte.
Con gli occhi sbarrati.
Nel buio del silenzio.
In attesa che il compagno desiderato arrivi a portare sollievo.
Passavano così, le notti di Jordi.
Pasticche o non pasticche il mattino giungeva con il suo languore di tiepidi colori, sfumature dal grigio all'arancio, al rosa, come un tiepido sollievo.
Lo sforzo acuto delle ore passate nella foresta della notte come un felino a caccia, lo lasciavano sfinito, con i muscoli rattrappiti dall'ansia, la testa dolente, gli occhi tumefatti.
Sembrava un pugile dopo un incontro che, invariabilmente, lo vedeva uscire dal ring disfatto e sconfitto.
Lentamente anche la sua mente si era assuefatta ai colpi duri che le notti insonni gli infliggevano senza pietà.
E mai, mai, che il sollievo dell'incoscienza servisse a lenire il dolore di quei colpi che, dopo ogni tramonto, si annunciavano sempre più pesanti.
Il sonno che aveva colto Jordi l'altra mattina era stato un dono di dio.
Lo aveva ringraziato a modo suo per tutta la restante parte del pomeriggio, dopo che si era svegliato, sollevandosi appesantito dalla scomoda posizione in cui si era rifugiato, forse timoroso di un inganno, di un sogno traditore.
Dormiva e sognava di sognare di dormire.
E in quel sogno che si sfaceva, come la sua coscienza tumefatta, soccombeva allo spavento che quel sogno di sognare fosse un incubo terribile.
Un'illusorio sollievo, che, svanito che fosse, al momento di ritornare alla cruda verità che, da un momento all'altro sarebbe piombata dal cielo come l'ennesima colpa da espiare, lo avrebbe lasciato ancora più dolente di ogni volta, come un cane, preso inspiegabilmente e senza preavvisi, a calci dal padrone amato.
E comunque aveva dormito.
Con la leggerezza di un angelo.
Con l'innocenza di un bambino.
Un sonno, ristoratore forse no, ma almeno riparatore, come una sutura per tamponare una brutta ferita che sbocca sangue e pulsa dolente.

Ma le notti che seguirono furono ancora peggiori di quelle fino ad allora.
Era stato questo il prezzo da pagare.
La condanna per la colpa di quel sonno rubato ad un custode tirchio e severo.
Una, due, tre notti intere passate sul materasso troppo molle per far riposare il corpo sempre più appesantito  dall'affaticamento dell'inerzia giornaliera.
L'inebetimento delle giornate non servivano a sciogliere la notte in sonno.
L'insonnia notturna non serviva a sciogliere la cappa di semincoscienza che avvolgeva come un sudario quella vita nata morta.
Contava i minuti, le ore, ormai i giorni, con la svogliatezza di un vegetale a cui nessun giardiniere pietoso ha reciso le radici malate che annegano nella melma di una pozzanghera marcia.
Piano piano aveva smesso di anche contare.
I numeri s'erano fatti entità astratte, forme di pensieri che volavano appoggiati sulle ali del disordine più casuale.
Immagini, ricordi, pensieri si erano confusi in un delirio in cui sprofondava sempre di più e nel quale, comunque, non riusciva ad annegare.
Oh, come gli sarebbe piaciuto partecipare alle sue esequie.
Immaginava, a tratti, di seguire il suo feretro, felice come un bambino a cui è stato fatto il regalo di essersi liberato da un'angoscia profonda.
Si vedeva, libero, vagare leggero nel cielo, privato del peso di un'esistenza senza senso e senza alcuna ragione per andare avanti.
Anche l'istinto di sopravvivenza si era ritirato, convintosi che il meglio per lui fosse la liberazione permanente da quel corpo che niente aveva da dare alla vita. 
E neanche lui, lo spirito di sopravvivenza, rammaricato, aveva più nulla da dare a quel corpo.
Andandosene da qualche altra parte, non aveva che da scegliersi un altro corpo da salvaguardare, avrebbe reso senz'altro il miglior servizio a quel fallimento d'esistenza che portava il nome di Jordi.
Noti e notti senza chiudere un occhio.
Giorni e giorni senza un respiro che desse il sollievo di una boccata di vita.
Il buio e la luce, ormai, non facevano più alcuna differenza, per Jordi.
Anche la televisione, il mondo fuori la finestra, la fame che buca lo stomaco, i piccoli percorsi verso il cesso, la cucina, la stanza da letto, tutto s'era fatto insignificante.
Solo il desiderio di un pò di riposo da quell'estenuante incubo che chiamavano vita.

Era in deliquio, ormai, da tre, forse quattro giorni.
Semi accasciato sulla sedia, davanti al tavolino della cucina.
Il rubinetto sgocciolante torturava i timpani e perforava il cervello.
Un colpo più forte gli parve provenire dal profondo del cranio ormai svuotato dai vermi che lo avevano roso da dentro.
Una specie di esplosione, e subito appresso un colpo improvviso.
Un caldo fiotto di sangue, dolce, come una bevanda tiepida e densa, gli scorse nella bocca.
Un altro colpo violento dietro alla schiena.
Un calcio fece volar via la sedia su cui s'era accasciato quell'informe corpo di morto vivente.
Prima ancora di cadere per terra, come un sacco che lentamente prende l'abbrivio, prima di precipitare nel vuoto, un altro calcio allo stomaco gli aveva deviato la traiettoria, facendolo rotolare di fianco.
Lo svenimento fu quasi istantaneo.
Neanche s'era reso conto di quello che gli stava accadendo.
Il sollievo dell'involontaria incoscienza gli parve, ma forse era soltanto un sogno malevolo, un immeritato regalo.
Sembrava volesse sorridere al suo dio che voleva premiarlo un'altra volta senza una vera ragione.
Ma non fece in tempo a piegare gli angoli delle labbra sottili.
Un fiotto d'acqua gelata gli richiamò alla mente il confuso istante in cui  quell'uragano improvviso era piombato, senza alcuna avvisaglia,  nella sua vita insensata.
Un brivido di freddo partì, involontario, incrociandosi con un lancinante spasmo di dolore senza ragione.
Jordi ancora non aveva focalizzato i tre colpi che lo avevano steso.
Un colpo di sfollagente sulle labbra e due calci al tronco, uno davanti ed uno di dietro.
Questo gli era accaduto.
Un altro calcio, sul fianco neppure l'aveva sentito.
Il dolore però adesso gli procurava conàti di vomito.
Bile amara.
Mista al sangue che ingoiava dalle labbra aperte dal colpo.

Lo portarono fuori con le mani dietro la schiena.
Lo avevano sollevato di peso, senza fatica.
Lo avevano ammanettato in silenzio.
Poche parolacce, spicce e decise, avevano trasportato quel topo di fogna, quel cencio insanguinato, fuori alla porta.
Sul camioncino dei carabinieri che lo portava in caserma non aveva ancora capito.
Il maresciallo che lo interrogò, in cella di sicurezza, non gli spiegò neanche perchè l'avevano preso.
Vole sapere soltanto come aveva fatto e perchè.
Il cadavere l'avevano trovato riverso in campagna.
Dove la città finisce nel nulla.
Sulla sponda del fiume che scorre sotto a quel ponte.
L'avevano visto, la notte, sceso dall'autobus, fermarsi a guardare di sotto.
Lì le puttane s'appartavano coi loro clienti.
Cosa aveva visto?
Cosa voleva da quel povero angelo dell'amore ch'era stato trovato sfregiato e squartato dalle forze dell'ordine, di primo mattino, ancora riverso nella pozza di bruno sangue aggrumato, semi assorbito dalla polvere accumulata sulla riva spoglia del fiume?

Voleva fare l'amore?
Lei gli aveva chiesto prima dei soldi?
Voleva violentare quel povero angelo che dispensava l'amore per tutta la notte ai poveri demònii che vivevano in quel quartiere di merda ai confini del nulla?

Voleva farsi giustizia da solo?
Dove aveva messo i soldi che aveva rubato?
Se li era bevuti già tutti?
Quanto aveva dato agli spacciatori per l'ultima dose?
Lo vedi che sei un drogato di merda?
Sei una feccia dell'umanità!

Così gli urlò.
Tutto il monologo del maresciallo era avvenuto senza le pause che s'attendevano una pur qualche risposta.
Il maresciallo sapeva.
Aveva già pronta la sua diagnosi.
Gli mollò, così, quasi per fargli un gesto di solidale compagnia, uno schiaffone sulle labbra ancora insanguinate per il colpo già ricevuto.
La vita era entrata nella vita di Jordi.
E che vita!
Uno schianto.
Dei colpi.
Una vera mazzata.

27 mag 2013

L'ANESTESIA (ovvero DEL PARADISO)

Henry FUSELY - SELFPORTRAIT


Si alzò con la bocca impastata.
Le pasticche per dormire gli facevano sempre quell'effetto.
Non si sentiva però soddisfatto per quelle poche ore di sonno sintetico.
Aveva sete e sentiva la gola secca.
Aveva tardato a prendere sonno.
Il deliquio del sonnifero non permetteva ai sogni di fare quel lavoro che purifica l'anima e distende i muscoli.
Era andato a letto che era già quasi mattina.
Aveva impiegato un'eternità per infilare la chiave nella serratura.
Era restato davanti la porta per molti minuti, come un ladro che non sa come disfarsi di quell'ostile muro di legno.
Aveva bestemmiato in cuor suo contro quella specie di stordimento che gli rendeva difficile ogni movimento, ogni attività che per chiunque sarebbe stata una banale formalità.
Poi, finalmente, sudato per lo sforzo nervoso, s'era buttato sul letto ancora sfatto dalla mattina che non sembrava ancora passata.
Aveva chiuso gli occhi, desiderando solo di addormentarsi velocemente.
Ed era restato al buio, aspettando che il sonno scendesse per avere pietà.
I minuti si dilatavano, nell'attesa.
I secondi sembravano ore.
Il tic-tac della sveglia meccanica, sul piano sporco e impolverato del comodino da quattro soldi, era diventato un battito snervante, il ritmo della catena di montaggio di una fabbrica d'insonnia.
Il cuscino s'era fatto duro,
Il materasso una lastra di marmo.
Il buio aveva trasformato la parte terminale della notte in una stretta bara opprimente.
Aveva preso un bicchiere d'acqua, il barattolino delle pillole, ed aveva ingoiato quel che più non riusciva a ricordare.
Tanto le dosi non gli servivano a nulla.
Con le due pasticche regolari non riusciva più neanche a perdere per un attimo i sensi.
Se la dose che ingurgitava senza neppure stare a far di conto gli avesse procurato una crisi mortale a lui non sarebbe neanche dispiaciuto.
Ed era rimasto a contare il tempo infinito.
La prima luce che filtrava attraverso le finestre dalle ante esterne disconnesse.
I primi rumori sulla strada.
Qualche motore in lontananza.
Una sirena.
Un allarme scattato a sproposito.
Uno sportello sbattuto sotto alla finestra.
Un latrato dal lato dietro la casa, dagli orti rubati al demanio ferroviario.
Il tubare di alcuni piccioni.
Il cinguettìo dei primi uccelli del mattino.
Non era sicuro dell'ordine sequenziale dei rumori, ma certo della loro molestia avrebbe testimoniato senza alcun dubbio.
Non era riuscito a prendere sonno profondamente.
Ogni volta, si scuoteva.
Poi si rigirava.
Sbuffando, sudato, anche se era pieno inverno, si metteva su un fianco.
Poi la semincoscienza lo prendeva per qualche minuto.
Era più una fatica che un sonno ristoratore.
La fatica di tutti gli insonni.

Il mattino era già cominciato da parecchio, per gli uomini, fuori, nel mondo aperto.
Al chiuso, al riparo delle quattro mura, il mondo restava in disparte.
E anche il tempo non contava più mica tanto, là dentro.
La svogliata sveglia sul lercio pianale di fianco al letto non segnava più l'orario giusto da chissà quando.
Per raccordarsi con il flusso dell'eternità gli bastava la televisione, in cucina.
Un vecchio modello a tubo catodico.
Indistruttibile.
Solo i canali principali.
Ma tanto già quelli erano fin troppo chiassosi.
Il ritmo era quello di tutti.
Qualche idiota trasmissione per vecchi pensionati.
Qualche notiziario.
Il quiz serale.
Molti intervalli.
Era la pubblicità che scandiva il tempo.
Lui ormai era capace di riconoscere l'ora del giorno dalla scansione di quei pacchetti di spot che in genere la gente evita di guardare, annoiata.
Lui, invece, restava inebetito, ipnotizzato, fisso a guardare quei piccoli spezzoni di storie, quei minuscoli film nei quali tutto succede in mondi ideali e perfetti, quei microcosmi di perfezione nei quali i desideri diventano così prepotenti da convincere la realtà del mondo a prostrarsi in ginocchio sconfitta.
Non esistevano denaro, rate, conti correnti.
Poteva, se lo desiderava, acquistare, di volta in volta, una macchina di lusso, una fuoristrada, mettere i pannolini per fermare i flussi mestruali che non aveva mai avuto, indossare scarpe traspiranti e improfumarsi nuotando in mari d'intense essenze orientali.
Ma soprattutto poteva starsene lì, per delle ore, a conversare con le sue ragazze preferite.
Viveva storie d'amore complicate e dolorose.
Intrecci sentimentali che neanche nei film più intricati si riuscivano a intrecciare così tanto.
Spesso ne usciva con le ossa rotte e il cuore in pezzi.
Qualche volta, invece, si portava a a casa un trofeo d'amore.
Le donne che amava di pù erano quelle che gli mosravano le gambe negli spot delle calze di naylon fruscianti e setose.
Invece odiava quelle che mostravano il seno a chiunque, davanti alle trasparenze del cristallo catodico.
La gelosia lo faceva impazzire.
Avrebbe voluto farne pezzi qualcuna.
Lo avrebbe fatto volentieri se non fosse stato trattenuto da qualcosa che in fondo all'anima, se un'anima pure ce l'aveva, gli diceva che quelle erano belle creature, che poteva scoparsele a piacimento, tanto erano puttane disponibili sempre.
Aveva paura di restare solo, certe volte.
E allora, si diceva, una di quelle poteva pure andare bene, per una sveltina senza importanza.
La sua preferita era una bruna con la gambe lunghe, sempre seduta su un letto disfatto.
La inquadravano di fronte, un poco dal basso, mostrando le lunghe gambe ben tornite, affusolate e dolci che sembravano lunghe autostrade dell'amore.
Mentre indossava un paio di calze scure che coprivano, man mano che risalivano verso la fonte del suo desiderio, quel tracciato della speranza che si faceva voluttà.
Quando l'ultima sua immagine spariva, inghiottita dallo spot successivo, lui si alzava furioso imprecando a tutto volume contro quei maledetti che gliel'avevano rapita.
E pensava ad avventure straordinarie per liberarla.
Duelli.
Sparatorie.
Atti d'eroismo.
E, infine, vedeva i titoli di coda che scorrevano veloci.
Ma non riusciva mai a capire la fine del film.
Povero Jordi.
Era troppo complicata, la vita reale, per lui.

Comunque, all'oscuro di tutto questo agitarsi dell'animo suo, prese un altro bicchiere d'acqua dalla fontana in cucina.
Si sentì meglio, per un attimo.
Corse in bagno per pisciare.
Aveva ancora il pisello indurito, come gli capitava al mattino, appena dopo la sveglia.
Ma poco.
Non era stata una buona nottata.
E neanche al momento della sveglia, stavolta, aveva sentito la forza della natura farsi strada dentro di lui.
Anzi, sentiva come un senso di morte che gli appassiva in mezzo alle gambe.
Anche il piscio, gli scorse giù un pò molle, finendo per insozzare il pavimento già un pò lurido di suo.
Colazione non ne faceva.
Una vecchia macchinetta per il caffè era rimasta senza carburante da mesi.
Non aveva voglia di comprarne dell'altro di caffè.
Non aveva neanche i soldi, se era per quello.
Si bagnò un  poco la faccia, di fretta, con l'acqua ghiacciata che il rubinetto sputava alla svogliato.
I denti neri non avevano bisogno d'altro.
Erano già pronti così.
Era vestito com'era andato a letto poche ore dianzi.
Non aveva un cazzo da fare.
Stavolta.
Come altre volte.
Come sempre.
La vita è un'inutile rincorsa dei giorni inutili e vuoti appresso ad immaginari sogni pieni di giorni pieni e indaffarati.
La verità è che nella vita non c'è un cazzo da fare.
Si, aveva avuto un lavoro.
Qualche volta.
Certe volte sentiva ancora lo stimolo di andare, uscire, muoversi per cercarsi un'attività, un'occupazione.
Un lavoro, insomma.
Ma era solo il bisogno indotto dalla sua povertà ormai endemica.
Si ricordava i giorni trascorsi mentre lavorava, appresso a qualcuno che gli ordinava "fai questo", "fai quello", "stai attento qua", "stai attento là", "non fare questo", "non fare quello", "non toccare", "tocca", "portami", "lascia stare"...
Insomma una vera rottura di coglioni.
E non riusciva ricordarsi nemmeno una volta che qualcuno lo avesse, non dio ringraziato, ma almeno gli avesse, alla fine della giornata, pagato il salario promesso.
Mai.
Lo avevano sempre cacciato in malo modo prima, accompagnandolo alla porta con calci nel culo e un'intera enciclopedia di bestemmie.
Era difficile passare lunghe giornate così.
Non sempre i suoi amori contrastati scorrevano sullo schermo grigiastro della televisione.
Troppe pause.
In quei lunghi tormentoni davano notizie di sciagure, tragedie, disgrazie...
Oppure futili storie che assomigliavano a tristi romanzi senza fine.
Le mattine erano le più lunghe da lasciar passere così, in attesa che il tempo si consumi ed arrivi l'ora di pranzo.
I minuti e le ore si dilatano in spazi di tempo interminabili.
Sono crudeli.
Iddio si diverte così.
Dalla finestra c'era sempre il rischio che il mondo esterno potesse tentare una sortita fin dentro la sua anima solitaria.
Dalla parete esterna della porta di casa aveva strappato via il campanello.
Era una semplice misura di precauzione, ma aveva funzionato egregiamente.
Nessuno poteva distrarre la traversata della sua piatta giornata, sconfinata ed interminabile, piana e grigia come una lastra di marmo e fredda e incolore come quella.
Non c'era speranza.
Seduto, sulla sedia un poco sconnessa, davanti al tavolo della cucina, fissava il vuoto davanti a sè.
Assorto in chissà cosa.
In un nulla pieno di fantasmi senza forma precisa.
Grumi di coscienza sconclusionata si agitavano e si confondevano con apparizioni fugaci di sogni distratti e sconnessi.
Se non gli doleva la testa era già molto così.

Ma quella mattina non era contento.
La testa, a dire il vero, a dolergli, gli doleva, e pure forte.
Colpi che rintronavano, come una campana.
Chissà che rintocchi, si dovevano sentire in quella vuota cucina.
La solitudine, Jordi, neanche sapeva cos'era.
Un deserto, gli sembrava la vita.
L'arsura ormai gli seccava gli occhi, ed il cuore, come la sete, al mattino, gli ardeva la lingua e la gola.
Stava.
Viveva.
Come un vegetale che soffriva il mal di testa cronico che i sonniferi lasciano ai malati d'insonnia assonnati e depressi.
Era una vita trascorsa negli infiniti spazzi fra un istante e l'altro della percezione.
Un nulla interiore su cui si stampavano, a tratti sconnessi, le immagini di un presente che penetrava dalle porte dei sensi con fare prepotente e borioso.
Un suono.
Un'immagine.
Un lampo.
Un barlume.
Colpi d'ascia sulla sua anima a cui voleva solo staccare la spina della corrente.
Se avesse potuto chiudere definitivamente quelle  porte che non ne volevano sapere di lasciare fuori gli spifferi di un'esistenza sprecata, sarebbe stato finalmente l'uomo più felice della terra.
Era questa, per Jordi, l'idea del paradiso.
Un luogo dove restare al sicuro.
Porte sbarrate sul caos della vita.
Fantasticava spesso di questo.
Pregava dio di dargli questa ricompensa, una volta che avesse  raggiunto il mondo dei più.
Finirla con quella tortura di dare un senso alle cose.
Alle cose che un senso, invece, di loro non ce l'hanno mai avuto.
Sono gli uomini che s'inventano le le storie delle loro esistenze fantastiche e improbabili.
Storie, successi.
Famiglie felici, amori ricambiati, figli, parenti, amici, conoscenti, ficcanaso e sconosciuti.
Storie, professioni, viaggi, luoghi, memorie...
Erano tutte balle.
Invenzioni.
Bugie senza valore.
Cos'era, invece, la vita?
Un susseguirsi di lunghe vuote ore che sprofondano nell'eternità senza neanche accorgersene.
Una catena spezzettata di insulse scene senza movimento nè sonoro.
Bombardamenti di suoni senza senso.
Raffiche e tempeste di dolorosi spasmi del corpo.
Deiezioni.
Desideri.
Inconfessabili momenti di oblìo.
Ecco, la felicità stava proprio in quei momenti di oblìo.
Soddisfatto il corpo in qualche proprio fisico volere, restava, subito dopo, lo sperdimento dell'annientamento.
La mente che aleggia senza meta.
Lo spazio dentro la testa che basta ad ospitare l'essere che non ha più nulla da chiedere.
Si, insomma, il paradiso.
Il vero paradiso...
E, in quella mattina, in cui era più acuto il doloroso senso di vivere, la fortuna si ricordò proprio di lui.
Un torpore incosciente lo abbracciò, portandoselo a spasso in quel vuoto  paradiso terrestre.
E i suoi baci si fecero caldi, quando quel torpore affondò nel sonno profondo.
Fu una forma d'anestesia esistenziale.
Gli fu amputata una intera giornata di vita.
Ma non provò alcun dolore, quella volta.
Neanche s'accorse, al risveglio, che gli mancava, intero, un pezzo dall'anima.

26 mag 2013

LA STAZIONE DEL NULLA

photo by Pierperrone


L'autobus rallentò svogliatamente.
Il conducente era distratto.
Il cellulare, una radio, uno sbadiglio, il sonno, la noia...
Il turno di notte non passa mai.
Vuoto, l'autobus tornava dal suo giro.
L'ultima fermata, il capolinea, la chiamavano "la stazione del Nulla".
Di giorno era una sconfinata distesa fuori città.
Nè dolce campagna, nè più periferia.
Terra nuda, fili spinati e cancelli, denti arrugginiti e bocche spalancate,  recinti su capannoni isolati che sembrano vecchi campi di concentramento sfollati. Qualche casupola di morti di fame. Qualche villa di dozzinale lusso di pessimo gusto male nascosta da siepi incolte. Carcasse di auto arrugginite. Lampioni alti come lance piantate nel cielo...
Di notte anche quel poco veniva inghiottito dal nulla.
Un nero mare denso come petrolio.
Gli occhi spalancati, stupiti dallo sconcerto, di quegli smagriti lampioni che qualcuno, in città, si ostina ogni sera ad accendere.
Formano solo inutili globi di luce giallastra che si rubano le stelle dal cielo.
La coltre di luce densa che spargono è irreale, come il nulla su cui si stende svogliata.
Sono più vasti, là, indietro, un poco oltre la via, i laghi di nera tenebra oleosa. Un oro nero inutile e illusorio, proprio come le poche ricchezze nascoste dietro le rade finestre illuminate che ogni tanto forano il nero sipario steso pietosamente da dio su quell'insignificante distesa di nulla.
Per gli autisti degli autobus è una vera tortura quel percorso notturno.
Un viaggio nella bocca di un Cerbero addormentato.
Una corsa all'accesso dell'Ade.
Un giro notturno nel dormiente inferno dantesco.
Ore che non passano mai.
Fermate saltate.
E noi che brucia  e consuma.
Spettri.
Fantasmi.
Inquietanti presenze.

Jordi aspettava.
Gli sembravano ore.
Il buio era freddo.
S'era rialzato a fatica.
La mano che gli aveva strozzato il respiro in fondo alla gola, pietosa, s'era ritirata in qualche angolo nascosto, laggiù, nell'oscura caverna.
Era uscito per fare una strage.
Una rabbia violenta gli annebbiava gli occhi e spegneva ogni pietà.
S'era avvicinato un cane, per pisciava sotto al lampione, lì di fianco alla palina dell'autobus, mentre annoiato stava aspettando che tornasse l'asmatico mezzo pesante.
Le crisi d'epilessia gli avevano distrutto la vita.
Il lavoro, l'amore, una vita normale.
Buttati in fondo a quei buchi nella coscienza.
Viveva da solo aspettando la fine, l'ultima crisi che, con compassione, gli spegnesse per sempre la luce.
Ma la malattia, aveva, a volte, pensato, era pur sempre una fortuna insperata.
Almeno Jordi una ragione l'aveva, per desiderare la morte.
L'aspettava come il sollievo che pone fine al dolore.
Per gli altri, gli amici stanche del bar, non c'era una ragione così tanto importante.
Loro passavano i giorni ad aspettare nel nulla.
Le ore si consumavano lente, là, in quei tuguri, fumando, bestemmiando, parlando di calcio come se fosse filosofia orientale.
Il desiderio trasformava le poche donne smarrite che sedevano alle basse sedie, dietro ai tavolini che zoppicavano da tempo, in formose Afroditi, Veneri candide, Vergini ansimanti.
Erano solo puttane di passaggio che andavano a prendere servizio da qualche parte, laggiù, lungo il viale che, come una ferita, taglia la spelacchiata campagna di quella periferia nata morta da sempre.
Quando tornavano, smontato il servizio, avevano visi stanche e occhi assonnati.
La morte l'avevano provata nel corpo.
Scopavano solo con poveri zombie di periferia, in squallide cabine puzzolenti di ansimanti camion di terza o quarta mano, rubati, dismessi da ditte già morte anche loro.
Qualche cliente con la vettura di lusso, di quelle che si vedono in quei cimiteri ambulanti di periferia, ogni tanto si fermava, fischiava, rideva, urlava qualcosa, chiedeva il prezzo e poi ripartiva.
Erano solo poveri cristi senza arte nè parte.
Poveri iluusi.
Bulletti di un quartiere di cui nessuno ha voglia di scrivere l'inutile storia.

Aveva un rabbia profonda, Jordi, resuscitato dal Nulla che l'aveva vomitato come un boccone indigesto.
Era sprofondato in quel buco nero mentre stava sul ponte affacciato sul nero buio spaventoso come l'ultimo abisso.
L'incosciente sonno dell'epilessia, era stato disertato dai sogni, stavolta.
Anche le voci, avevano smesso di urlare.
In quel nulla nero di notte era rimasto solo,vagabondo nel mondo dei morti, come quel cane che sera affacciato dalla tenebra che abbracciava il cono di luce dello smorto lampione.
Ma quello, il fantasma del cane, c'aveva una buona ragione per affacciarsi sotto quel fiotto d'elettrico sole giallastro.
Esaurita l'urgenza urinaria, si, insomma, finita la sua pisciatina svogliata, quello, il cane s'era girato assonnato e confuso, e aveva ripreso la via dell'oscuro viaggio nel mondo dei cani.
Odori e fantasmi, per i cani, non fanno alcuna differenza.
Per Jordi, neppure.
Di lontano arrivava il fetore di una fogna che chiamano a cielo aperto, ma che del cielo non ha altro che il fetido alito grigio dei morti viventi che bestemmiano contro dio ed i santi distratti.
I fantasmi stanno nascosti nella testa di Jordi, puzzolenti anche loro, di alcol e di piscio.
Come nei cessi dei bar dove ogni tanto si ferma a scaricare il peso della sua carcassa che gli rende grave la vita.
Aveva la rabbia frustrata di chi vuole ammazzare l'intero mondo, là fuori.
Le voci, l'abisso di nulla, i fantasmi, le oscure presenze, lo sciamare dei corvi vestiti da uomini, i presagi di morte, la sofferenza, la vita seminata di spaventapasseri grigi, la malattia, la speranza che la luce finalmente si spenga per sempre...
Jordi non aveva coscienza di quelle immagini oscure.
Non distingueva gli spettri che gli abitavano l'anima.
Non sapeva dargli nè nome nè forma.
Non capiva di vivere.
Non immaginava neanche di dovere presto morire.
Non desiderava nient'altro che tornare a dormire.
Ma c'era la rabbia.
L'insostenibile bisogno di ribellarsi a quel nulla che uccide.
Uccidere.
Sangue.

L'autobus si fermò cigolando.
Una bestemmia allungò il conducente vedendo Jordi esitare sul primo scalino.
Sembrava ubriaco.
Barcollando, aggrappato al primo paletto, sembrava dormire in piedi, come i barboni che di notte incontrava in quel mare che chiamavano terra del Nulla.
Ogni tanto si divertiva a spaventarli.
Tutti si divertivano con quei poveri fantasmi senza un dio protettore.
Jordi allungò una mano come se volesse menare un colpo di pugnale assassino.
La forbice stretta fra le dita come un coltello giustiziere.
L'aria restò immobile, mentre la lama compiva la sua traiettoria che nella mente di Jordi si doveva completare nella schiena di quel mostro che spuntava dal lontano sedile molleggiato che troneggiava là in fondo.
Aveva calcolato male le distanze, la povera mente malata l'aveva tradito.
Le forbici, anche, chissà, forse non erano neanche una vera arma d'acciaio.
Forse anche quelle erano solo un sogno liberatore.
Jordi era solo un morto di fame.
Una disgraziata vita datagli prestito da un dio non aveva la voglia di riprendersi il suo.
Sognava senza neanche saperlo.
Una vita come un oscuro sogno nebbioso.
Il bus continuò la sua corsa notturna di palina in palina, sul viale, tornando in città.
Le puttane stavano sedute a fianco ai fuochi ormai quasi freddi, come i loro corpi disfatti e le anime morte.
L'autista continuava distrattamente a smanettare il suo cellulare, la radio, qualche bestemmia, uno sbuffo.
Jordi, su un sediolino, in disparte da tutto, immaginava la vita che si spegneva poco alla volta, come la notte.
Infine riconobbe la fermata della sua povera casa.
La sua fermata.
Lui la chiama ancora la "Stazione del Nulla".

24 mag 2013

UNA FERMATA D'AUTOBUS

photo by Pierperrone


Spento il televisore, Jordi rimase solo nella piccola cucina.
S'era fatta sera, ormai, fuori, dietro la finestra.
Fuori, si vedevano solo le file ordinate di luci che salivano sul dorso dei palazzi di fronte.
File a intermittenza.
File fustellate.
Come se i palazzi fossero giochi di costruzione per bambini.
Nella sera il cielo era sparito.
Fuori, neanche una stella.
Una cappa di piombo aveva rubato il cielo, bloccando le via alla speranza, al sogno, anche all'illusione.
Jordi tremava.
Il freddo dell'inverno era entrato in casa di soppiatto, ma poi ci si era stabilito, ci si trovava bene in quella casa così desolata, vuota, trasandata.
Jordi non si curava molto di quel rifugio.
Era solo una tana, selvatica, come una caverna.
E lui era come un orso, selvatico e solitario.
Si alzò lentamente dalla sedia, dopo una lunga pausa, durante la quale era restato immobile, come morto.
Sovrappensiero.
All'inizio era solo un senso di fastidio, una sensazione molesta di disturbo, un disagio che non aveva neanche un perchè preciso.
La televisione aveva esalato l'ultimo bla-bla noioso come al solito e Jordi, stufo e annoiato, con una leggera pressione dell'indice sinistro, aveva spinto il tasto rosso.
La sua liberazione.
La sua arma preferita.
Il colpo che, da killer perfetto, di solito toglieva di mezzo ogni discussione.
Spegnere il televisore era, quasi sempre, una liberazione.
Era come chiudere le porte sul mondo, sbarrare le finestre per evitare che l'uragano che dilaga sulla città sommerga anche quella parvenza di normalità che si appiccica alle cose insignificanti di casa.
Non sempre, è vero, spenta la tivvù, il sollievo liberava Jordi della sofferenza che il mondo, la vita, gli provocava.
Alle volte qualcosa restava ancora impigliato dentro le sue corde, come un tubo di scarico ostruito e rendeva  le serate, solitamente insignificanti ed inutili, dolorose  e tetre.
Era come un vedersi allo specchio.
Si, la televisione, le sue storie, vere o false, era un'intrusione della vita nella sua afasìa permanente.
Era un fantasma che lo scuoteva, spaventandolo, mostrandosi con la sua stessa maschera.
Le storie di assassinio e gli omicidi gli piacevano in particolar modo, lo attraevano.
Forse per il senso di rivincita che, lui immaginava, dovevano provare quegli eroi che avevano saputo ribellarsi all'impotenza in cui erano condannati a vivere quelli come lui, come Jordi.
Ecco, si, lui, quelli come lui, quelli che vivono soli in case buie e vuote come la sua, erano tutti assassini potenziali.
Era l'impotenza d'ogni giorno, l'incapacità di dare un senso alla vita quotidiana, a renderli potenzialmente assassini.
Ed era l'impotenza, l'incapacità di reagire, di scavarsi un qualsiasi destino, ad impedire che quel potenziale di violenza si trasformasse in azione, reazione e morte.
Spegnere il televisore era come sbarrare la strada a quel fiume in piena.
Una diga contro il flusso della marea nauseante degli uomini e della vita.

Allungò la mano e prese un bicchiere sulla mensola.
Aprì con un gesto il rubinetto sollevando la leva dell'acqua fredda.
Riempì e bevve.
L'acqua gli scolò dal lato della bocca e gli bagnò, sotto la felpa pesante della tuta consumata, la camicia già sporca.
Svogliatamente, con uno straccio, sotto la luce un pò smorta della lampada a risparmio energetico, cercò di asciugare il rigagnolo che gli era penetrato fin sul petto, attraversando anche la canotta bianca che portava sulla pelle.
Poggiò il bicchiere nel lavandino di porcellana sbeccato e sudicio e si accese una sigaretta.
Fumava sigarette molto forti.
Posò l'accendino sul piano del tavolo e si mise la testa fra le mani.
Con le palme cercò di tener fuori le voci che lo stavano assordando.
Si sentiva confuso.
La testa era come una carica di esplosivo e quelle voci erano la miccia che bruciava veloce.
Era lo speaker del telegiornale che, con tono cadenzato ma indifferente, enumerava gli eccidi che il mondo faceva finta di ignorare.
Era il politico di professione che elencava i punti di programmi mai realizzati per risolvere gli eterni problemi dei morti di fame, fregandoli ancora una volta.
Era il cantante rock che urlava alla luna le sue ritmate insulse ballate d'amore non ricambiato.
Era il presentatore che incalzava come un martello con le sue domande da quiz idiota il concorrente ansioso e  impreparato.
Era la bella attrice del film d'amore che urlava la sua scenata di gelosia contro un marito traditore e vile.
Era un esercito di altri commedianti che recitavano male la tragedia del mondo.
Ma, soprattutto, erano i fantasmi che solitamente abitavano in fondo alla sua anima, che stasera, si erano messi in testa di dare una festa e di ballare e cantare a tutta birra, facendo un baccano d'inferno che le sue mani non riuscivano a trattenere fuori dalle orecchie indifese.
Con la mano destra prese un coltello, senza neanche accorgersene.
Con un colpo netto si recise il padiglione dell'orecchio sinistro.
Poi, prima ancora di sentire il dolore, con fulmineo gesto da maestro professionista, passò il coltello nell'altra mano e si recise l'altro padiglione.
Il sangue sgorgò come da una fontana a due becchi.
Scorse sporcando dappertutto, gli abiti lisi, il tavolo, il pavimento sporco.
La sigaretta s'impregno subito e immediatamente si spense con uno sbuffo ed una strana fumata malinconica.

Quando riaprì gli occhi si sentiva tutto stordito.
Gli era capitato altre volte.
Jordi era soggetto a crisi epilettiche e quando capitava che in quei momenti perdesse il contatto col mondo, al risveglio non ricordava granchè cosa aveva sentito o provato mentre era svenuto.
Alle volte la crisi era più forte ed era accompagnata da convulsioni che lo scuotevano fino a quasi farlo soffocare, con la bava che gli schiumava dalla bocca e gli bagnava il bavero della camicia.
Ma stavolta il ricordo lo spaventava ancora.
Aveva davanti agli occhi tutto quel sangue.
La sigaretta e l'ultimo sbuffo triste di fumo.
Il coltello con la sua lama ancora affamata.
I lembi di pelle dei padiglioni perduti che non riusciva più a trovare.
La corsa in bagno per cercare la benda e fasciarsi la testa ferita come una mummia.
Il cerotto che non si voleva attaccare.
E il sangue, tutto quel sangue, un mare di sangue...
Riaprì gli occhi, li sbattè un poco, sentì subito sete.
Un sorso d'acqua.
Per riempire ancora il bicchiere doveva riuscire a rialzarsi, prima.
Lentamente ci provò.
Era meglio del previsto.
S'appoggiò un poco alla sedia, poi al tavolo, infine al lavandino.
Bevve.
Era passata.
Ma non lo spavento.
E neanche le voci.
Neanche quelle lo avevano abbandonato.
Tuonavano come una tempesta.
Nella testa il temporale impazzava.
Jordi impazziva.
Poco alla volta, lo sapeva, sarebbe impazzito del tutto.
Lo sapeva, ma non poteva capirlo, perchè la sua mente rifiutava di comprendere ciò che stava gli accadendo.

Prese la maniglia della porta di casa e uscì nel cortile.
La sua casa era una di quei poveri monolocali che danno direttamente sul cortile dei casermoni con le fustellature delle file di finestre illuminate che salgono fino all'inferno del cielo.
Varcato il cancello, si allontanò sul viale su cui vegliavano solerti gli lampioni freddi come torri di ghiaccio.
La fermata dell'autobus, poco lontano, e, la fortuna, il puzzolente mezzo extraurbano che arriva, come un maledetto miracolo.
Nessuno, sull'autobus, solo l'autista annoiato attaccato al suo cellulare.
Il lungo percorso nella sera che sprofondava pian piano nella notte desolata.
Jordi si guardava intorno un poco stodrito.
I finestrini erano coperti da un velo di umido umore invernale.
Il riscaldamento dell'autobus non scioglieva il gelo invernale.
A fiotti, ondate d'un alti caldo, si propagavano da sotto al sedile.
Ma presto venivano inghiottite dal freddo che non aveva mai lasciato l'autobus da quando aveva lasciato il deposito.
Jordi voleva dormire.
Gli occhi gli pesavano e calavano senza controllo.
I segni dell'attacco epilettico se li portava ancora dentro.
Lo stordimento.
La paura.
Il sangue.
Ma le voci, quelle maledette voci d'inferno, non volevano lasciarlo più in pace.
Quando il mezzo giunse alla fermata che dava sul ponte, Jordi schiacciò il pulsante.
Il bottone rosso che assegna il potere.
L'autista alla fermata fermò.
E Jordi pesantemente scese dall'autobus.
Si sporse, guardando di sotto, dal ponte.
Era nero.
Sotto il fiume era stato ingoiato dal nulla.
Il nulla della notte.
Il nulla della vita.
Anche lui venne ingoiato dallo stesso insaziabile nulla.
In un attimo.
Breve come un battito di ciglia.
L'insaziabile nulla del destino era venuto a prenderlo sin lassù, mentre ancora se ne stava sul ponte.
E la notte scura non aveva fatto nulla per difenderlo.
E neanche la città, lì intorno, che neppure si accorgeva di Jordi.
L'autobus lento, lontano, spariva, anch'esso, nel nulla.
Chissà, forse l'autista aveva ancora una fermata, laggiù.
L'ultima fermata.
Alla stazione del "Nulla".