10 feb 2013

PILLOLE AUTOBIOGRAFICHE (8)




Io ho abitato in un certo numero di città.
Se le conto mi sembrano molte.

Tanto per parlarne, la prima in cui non ho abitato è quella dove sono nato.
Un paese piccolo, in campagna, nel sud italiano, nelle Puglie più distanti, dove il sole si fa secco, d'estate, la terra piatta come l'olio, il mare sconfina mischiandosi con la roccia e, da oriente, si getta fra le braccia protese dell'occidente...
L'erba, d'estate, diventa secca, laggiù, l'ombra, sotto le chiome dei fichi e degli ulivi, si fa oleosa e densa ma si apre improvvisa, come una gola oscura che s'ingoia la calura bollente.
I sassi bianchi restano distesi sotto il sole come ossa calcinate sulla terra bruciata.
I muretti lunghi e sottili tracciano nella terra rossa strette ferite che si allungano e s'intrecciano sul corpo martirizzato della pianura.
Le case coniche sono conficcate come chiodi sulla piatta distesa, come pustole sulla pelle che lentamente si secca sotto il fuoco che arde nel cielo.
Le finestre senza infissi, su quei tuguri esuli nelle campagne disabitate nell'ora della caligine, si aprono nell'ombra, affondano nei laghi di fresca tenebra in cui si nascondono le lucertole ed i ragni, in cerca di refrigerio, di ombra, di solitudine, di pietà...
Come un mare sconfinato, anzi, mare di terra vasto come il mare d'acqua salata che, all'orizzonte, riflette il cielo con lampo abbaccinante fatto di luce e di spuma, la campagna, per ogni lato, circonda il paese che resta a galleggiare in quella distesa come una barca alla deriva.
Ovunque, lo sguardo si sperde in un'orizzonte sottile come una linea ed impercettibile, lontano, infinitamente distante, dove abita il mondo dell'incoscienza, dell'inquietudine, dell'instabilità...
E' il sole a dare quella sensazione di sottile pericolo, è la sensazione di pena che sgorga dalla pelle che lentamente viene arsa dai raggi che cadono a picco, impietosi, ineluttabili, destino infuocato per  gli abitanti di quella terra sospesa fra le fiamme dell'inferno e la piatta superficie del mondo, dura e pesante come una lapide.
Ma la vita sorprende con la sua invisibile presenza.
Gli odori sono come scosse che percorrono la via fra i rovi e il cervello.
Spine di fragranza che si piantano dove la saliva si fa più secca, densa di sete e di desiderio.
I fichi, le more, il tabacco, il grano nei sacchi di canapa, la paglia, il letame delle bestie nella stalla, il vino rosato e forte come un liquore traditore.
Gli odori e i sapori sono come colpi di coltello che affondano nella carne di chi è vivo.
Fiottano dalle cose come come il sangue gorgogliante dalle ferite che si aprono, all'improvviso, per un gesto malaccorto, nella pelle incartapecorita dei contadini stanchi, che si riposano, alla sera, suonando la chitarra nella penombra, quando il sole non vuole andare a dormire, o sotto la luce gialla dei lampioni che danzano, dondolando.
Canzoni e balli.
Sedie traballanti, che fanno la sentinella davanti alle porte aperte.
Passi, mossi dal ritmo del movimento musicale, che scavano nella strada nera d'asfalto e grigia di polvere orme come quelle degli animali nella terra.
Gonne e occhi che dondolano e sguardi diagonali, lunghe pieghe di pantaloni neri e di scriminature impomatate.
Rimbomba da un fianco del paese la cupa voce di un'arena in cui si proietta ancora un vecchio film di pistoleri, l'eco della tromba che canta la lenta, triste, marcia funebre copre appena il frastuono degli spari ed il lungo lamento dei morti che fingono un'interminabile agonia ansimante.
La parola fine sullo schermo impolverato segna l'intervallo fra la finzione verticale del film e quella orizzontale che scorre per la stretta via del paese che gli abitanti si ostinano a chiamare da sempre via Roma, come se fosse il suono di un antico rito magico, come se pronunciando quel mantra il corso della storia fosse costretto a deviare la sua rotta, a passare, seppur distrattamente, di là.
La storia, per la verità, passa tutti i giorni in quella via, ma nessuno si ferma a guardarla, perchè non porta gli abiti vistosi dei grandi eventi memorabili.
La storia, quella vera, quella fatta dagli uomini che si portano addosso sempre gli stessi nomi, fatti di speranza e di desiderio, si scrive su quella strada, ma nessuno lo sa, non interessa a nessuno.
I nomi, sempre gli stessi nomi, nomi che non cambiano mai.
Anch'io mi porto addosso lo stesso nome di qualcun altro.
Mio nonno.
E come me, mio nonno si porta addosso il nome di qualcun altro che si portava addosso, prima di lui, il nome sempre uguale di qualcun altro ancora, e così all'indietro, per generazioni e generazioni.
Tutti uomini che si chiamavano, fin dai tempi più remoti, esattamente come me.
Anche se io non ero, non ero ancora, non ero ancor astato.
Sono nomi che non si tramandano solo in linea retta, dal nonno al nipote, ma che sdrucciolano in ogni direzione come ubriachi usciti dalla cantina.
Pochi stanchi nomi che i più ritengono inutili, come la storia che si portano addosso.
Nomi che sono sempre gli stessi, nomi che servono per designare destini tutti uguali e tutti diversi, tutti stanchi e tutti inutili, sembrerebbe di poter dire, nomi di destini a volte disperati e a volte felici, nomi che non hanno lasciato se non tracce leggere, nomi che quasi tradiscono la loro natura e finiscono per non essere neanche più nomi di qualcuno, nomi di uomini tutti uguali, nomi impastati dal sole di terra e sudore, polvere e lacrime.
Sono nomi che non stanno scritti sulle pagine dei libri di storia, ma solo sulle lapidi di marmo dei cimiteri.
Nomi che conoscono tutti, ma che non si ricorda più nessuno.
Nomi che restano nomi di uomini non si sono sottratti ai dardi del sole che consuma la pelle, alla fatica che consuma le mani, al sudore che secca la pelle.
Nomi di uomini che da sempre appartengono ad uomini bellissimi e straordinari, eroi di loro giorni ordinari, eroi veri, eroi che la storia, passando da quella stretta via di paese, ha dimenticato di onorare.
Sono nomi comuni di uomini unici.
Nomi di storie e destini che restano unici per sempre.
La memoria, però, si ribella alla fatica di ricordare tutti quei nomi disabitati dalla gloria e che non si scrivono sui libri di storia.
La storia che si scrive sulle strette vie dei piccoli paesi che vanno alla deriva tra i flutti, nel mare marrone dei campi di tutte le dure terre di campagna, non ha un armadio dedicato, nella grande biblioteca della memoria.
Ma io trovo che sia meglio così.
La storia vera è fatta di uomini così, di eroi quotidiani che non sono stati abbracciati dal destino nella gloria.
Noi tutti siamo uomini così, eroi senza gloria.
Il nome di ognuno di noi arriva dalle profondità del tempo e, dopo il suo viaggio, affonderà nelle profondità del tempo che sprofondano davanti a noi.
Ognuno di quei nomi si attaccherà addosso ad uno come noi, un uomo, uno come noi stessi e correrà la sua corsa insieme con lui.
Poi, al momento opportuno, con un gran salto, balzerà sulla groppa di un altro.
Un uomo uguale altrettanto.
Per un'altra breve corsa.
Uguale altrettanto ...
Nomi e uomini riempiono il grande libro della storia che si scrive sulle strade dei paesi e delle città.
E non importa che nessuno passi all'anagrafe per leggere tutti quei nomi, per ricordarne le date e le ricorrenze.
Solo, qualcuno, passa per i viali di qualche cimitero e distrattamente incuriosito getta uno sguardo un pò qua un pò là.
E' questa la storia che si scrive in quel paese che non ho abitato...

2 commenti:

  1. Hai ragione sai? La storia delle persone è la storia più bella. Quella che forse ci fa comprendere molto di più quello che siamo. La storia delle persone normali. Quella che non rimane se non nella memoria di chi ha conosciuto e vissuto con quelle persone. E' la storia che s'insinua dentro nel momento in cui nasciamo, quasi fosse un patrimonio genetico e che traccia una parte del calco su cui noi poi prenderemo forma. Per questo forse, ancora non posso far cadere le braccia, perchè so, quanto è grande e importante il seme che ognuno instilla nell'altro. Il seme della "piccola" storia che forse può cambiare la "grande" storia.

    Questo tuo racconto ha toccato una mia corda, particolarmente sensibile. Questa tua terra l'ho conosciuta un po'. Leggendolo mi sono immersa in sensazioni e ricordi, rivivendoli quasi in un'altra dimensione. E' stato bello. Un po' ha fatto bene, un po' ha fatto male, ma è stato davvero bello.
    Grazie...

    Un grande abbraccio

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  2. Mia cara Patrizia,
    e che dirti?
    Mi fa piacere quello che mi hai scritto.
    ... E' un'ottima ragione per non smettere mai...

    No, a parte gli scherzi, tu mi riempi sempre di gentilezza.
    So che mi dici quello che senti sinceramente.
    E questo, credimi è davvero molto.
    Mi riempie di orgoglio, di piacere.

    Non aggiungo altro.

    Solo, una cosa.
    Raccontare, questa volta, per me, ha avuto due momenti distinti.
    Quello descrittivo, del ricordo, del viaggio nella memoria, lo scavo, il recupero di una parte di me seminascosta, semidimenticata, semisepolta...

    Una parte, l'altra parte... diciamo così, in cui ho tratto le considerazioni, ho azzardato l'idea.
    Cosa penso degli uomini, e cosa penso della storia, forse lo sai già, lo hai letto con affetto tante volte, qui da me, quindi non ho detto cose nuove... ma forse questa volta è stata la volta in cui è venuto fuori un pezzo di verità - della mia verità, che (oh, gioia, Patrizia, è anche la tua!)- che è verità non perchè qualcuno lo dichiara, lo impone, ma perchè viene fuori direttamente dal cuore. Così accade nelle poesie.
    E forse questa verità è fatta proprio di poesia.
    Ma non vorrei esagerare.
    Torno all'abbraccio affettuoso delle tue parole e mi ci avvolgo.
    Per una volta, fammi essere vanitoso e coccoloso!
    Un bacio,
    Piero

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