17 set 2013

FIABA DELL'ACQUA

Paul Emile CHABAS (1869 - 1937) - La BAIGNEUSE


Tutti i bambini, in città, lo chiamavano "il Nonno", al parco, quando le mamme li portavano a giocare e loro, instancabili, correvano a nascondersi dietro a un albero o sotto una panchina.
E lui era lì, intorno a loro, anche quando vivevano le fantastiche avventure del bosco, o quelle in riva al fiume, o dietro gli steccati, dove non giungevano i richiami e gli occhi delle madri.
Era lì che, in cambio di un impagabile sprazzo dell'eterna gloria dei bimbi, si doveva ritirare la protettiva presenza genitoriale.
E così rimanevano soli.
E lui, il vecchio, come lo chiamavano, restava incantato a guardarli.

Il vecchio... era un vecchio.
Abbastanza vecchio, sì, certamente.
Ma nemmeno era tanto vecchio come sembrava dal nome.
Aveva una folta barba sotto al mento ed i capelli fulvi che gli davano l'aspetto che apparentemente giustificava il soprannome di "vecchio".
Ma nessuno, in realtà, si peritava di guardare davvero se quel nomignolo era azzeccato.
Nessuno si poteva permettere di perdere un istante del suo tempo prezioso per approfondire quell'inutile dettaglio.
Tanto, a che serviva?
Era vecchio.
Era sporco, randagio, un animale fuggito dalla gabbia.

La polizia urbana lo teneva d'occhio.
Ma senza prestargli troppa attenzione.
C'era ben altro da fare in città, ben altro a cui fare la guardia.
Ladri, rapinatori, assassini.
Un vecchio cane randagio non si merita gli sforzi delle forze dell'ordine o il dispendio di pubbliche risorse.
Chi vive ai margini, va isolato.
Chi si lascia andare alla deriva, chi occupa gli spazi alla periferia della società è solo un fastidio.
Non un vero pericolo.
E lui, il vecchio, dormiva sulle panchine.
Qualche volta si ubriacava.
Pisciava dietro i cespugli e puzzava.
Ma non era mai stato un fuorilegge.
Era uno spostato, piuttosto, un derelitto.

Gli piaceva stare a guardare i bambini che giocavano.
Gli sembrava di tornare ad essere anche lui un bambino.
Ma non tanto per la nostalgia di quell'età.
Certo che no.
Piuttosto ne avrebbe avuto paura.
E poi, in realtà non era così vecchio come la maggior parte della gente credeva.
Lui cercava, piuttosto, la vicinanza delle mamme.
Le uniche donne che l'avvicinavano, seppure involontariamente.
E senza neanche vederlo.
Quelle, si avvicinavano a lui solo quando s'aggirava nei paraggi delle loro creature.

A lui, al vecchio, come lo chiamavano tutti, piacevano le donne.
Le guardava con desiderio.
Sbirciava di nascosto com'erano fatte.
Se le immaginava com'erano fatte.
Se le sognava come lui se le voleva sognare.
Fantasie da adolescente imprigionato in un corpo d'uomo maturo.
Desideri un poco malati.
Voglie mai esaudite.
Le donne che lo evitavano erano il centro della sua ossessione.
E quelle, le mamme, restavano lontane anche quando s'avvicinavano troppo.

Quando si fissava a guardare, il desiderio, nella sua mente solitaria, s'ingrossava come una corrente impetuosa.
Le gambe.
Erano soprattutto le gambe.
Abbronzate, agili, lunghe, carnose.
Nude sotto le gonne corte.
E quello che c'era poi più, oltre, più in là...
Il mistero d'una natura inspiegabile.
E inesplorata.
E poi i seni.
Dolci e rotondi.
Frutti da cogliere.
Sotto le camicette strizzate.

Sentiva il dolore dei morsi nella sua carne d'uomo immaturo.
Sentiva il desiderio mordergli, impudìco, dentro i pantaloni un pò larghi e sporchi di piscio.
Sentiva soprattutto la disperazione, crescergli dentro.
Una condanna.
La solitudine d'una vita buttata.
Soprattutto da quando Venus l'aveva scacciato.
Venus.
La sua Venus.
L'aveva cacciato di casa.
In malo modo.
Una notte.
Dopo un'ennesima lite.
Era impotente.
L'impotenza d'amare con un corpo frustrato.
L'impotenza di domare la natura imperiosa dei sensi di lei.
Fatale, fu, quella sera, il colpo metallico d'un grilletto inceppato.
Fu in balìa del mare impetuoso che non trovava pace tra le gambe di lei.

Il vecchio, sulla panchina, non conta neanche i giorni che gli scorrono lenti fra le mani.
Dietro al cespuglio passa le ore a guardare.
Le bambine, inconsapevoli, scendono, ridendo, lo scivolo.
Impazzite.
Le madri, felici, aspettano.
Braccia spalancate all'amore che arriva di corsa.
Un colpo di vento imbizzarrisce i capelli.
Profumo di talco e di donna si spande nell'aria.
Un'onda d'organza leggera.
Fruscio di sogni di seta.
Un merletto furtivo.
Un gesto distratto.
Un sospiro.

Una mano disperata.
Un livido pugno.
La spasmodica forza della disperazione.
Adunca come un artiglio.
Nell'aria si solleva acre l'odore dell'erba violata.
Si spegne lontano il suo silenzioso lamento.
Un candido fiore porge al boia la sua delicata corolla.
Poi, reclina il capo.
Cade reciso.
Un bagliore di lama stridente e feroce si spande nell'aria.
Un riflesso di duro, gelido, acciaio.
Una lama di luce affilata.
Restano due occhi socchiusi.
E un pianto, distante, di bimba.

La piccola Italia sogna con gli occhi aperti, sgranati nel vuoto.
Seduta sulla panchina nel parco, s'è scordata del tempo.
Sta per giungere anche l'ora di cena.
Quando spuntano i fiori e l'erba si fa verde tappeto, dopo il lungo inverno che paralizza nel gelo la grigia città, appena l'aria si fa ancora una volta mite e leggera, non le piace stare rinchiusa nella stanza a rimirare lo spicchio di cielo rinchiuso nel quadro della finestra.
E' una prigione, quella.
E deve fuggire.
La mancanza della scuola, nei lunghi mesi delle inutili vacanze d'estate, allunga le ore della giornata e ingigantisce l'attesa della nuova sera prima che giunga davvero.
Alla piccola Italia piace star delle ore sulla panchina nel parco.
Di fianco alla riva del fiume.
Immobile, fissa, ad ascoltar la corrente sommessa che mormora le sue storie lontane.
Nel verde ancora tenero della radura le piace sdraiarsi sull'erba, senza paura di macchiare il delicato vestitino leggero.
Resta lì delle ore.
Sta ad ascoltare con molta attenzione.

Dietro la siepe il vecchio, a lungo, sta fisso a guardarla.
Silenzioso ed assorto.
La conosce da quando era bimba.
La nonna l'accompagnava, allora, quando non poteva ancora uscire di casa da sola.
La scortava ai giochi nell'area dei piccoli.
Al vecchio non interessava quella donna passata d'età.
Era solo una vecchia signora.
Ma la piccola Italia, pian piano, s'era fatta una signorina dalle forme perfette.
E' diventata una pesca matura.
Là, sulla panchina, se ne sta come appesa sul ramo.
Odoroso velluto che non sente l'ape ronzargli d'intorno.

Il pomeriggio allunga le ombre delle cime degli alberi sul verde pianoro.
Forse è l'afa a diventare insopportabile, oppure la voglia di fare qualcosa di speciale.
Non sa.
La piccola Italia, d'un tratto, si scuote dal torpore in cui ristava sognante.
S'avvicina alla riva del torrente che complice canta lì a fianco.
Si toglie le scarpe.
Ballando dolcemente comincia a bagnarsi.
Il suo giunco si flette flessuoso sulla superficie dell'acqua.
Ondeggiando, s'immerge, con un brivido al contatto della frescura dell'acqua.
I suoi frutti si fanno sodi ed aguzzi.
Le sue valli ed i suoi colli, dolcemente si lasciarono andare.
Ai baci del fiume s'abbandona, fremente.
Ma lei non se ne accorge.
E' assorta nel suo sogno incantato.

Il volto del vecchio diventa di pietra.
Si fa pallido cencio.
Due lacrime gli rigano il volto rinsecchito e rugoso.
Lui non se ne accorge.
Son lacrime color rosso sangue gelato.
Sul fiume resta sospeso un sospiro profondo.
Poi anche l'aria si ferma in attesa.
Finchè il giunco flessuoso, dopo il suo bagno vitale, si leva.
Si mostra nella sua candida nuda purezza.
S'offre al soffio della brezza leggera che l'avvolge come un soffice lenzuolo di lino.
Poi, sazio del sollievo che gli ha offerto la generosa natura, torna a rivestirsi dei panni odorosi di bocciolo di donna
Protetto del pudico manto della sera che finalmente giunge ad avvolgere quella divina innocente creatura.

Il demonio ha gli occhi di brace sotto la fronte, e il respiro affannato.
Ma porta in petto il gelo del cuore.
Non ha speranza, la povera bestia dannata.
La sua casa è l'inferno.
La condanna è l'eterno fuoco del desiderio che estinguer non può.
Crudeli aguzzini son le creature più dolci del mondo.
Gli scava ferite profonde, quel fuoco.
Le carni ardenti spegner non sa.
Brucian sulle fiamme.
Smorzar il fiammante falò è l'imperativo represso.
Tizzoni si fanno, di sterpi e rami, carbone, i tentacoli della povera immonda creatura.

L'acqua, nella pozza larga del fiume, si tinge, d'improvviso, di nero.
Rigurgita olio, pece bollente.
Un rombo porta il grido sgomento del cielo tremante.
Una vivida lampa balugina in alto, spettrale.
Si fende, ferita, la notte.
S'apre la tenebra urlante.
Cadon, pesanti, neri chicchi di pioggia.
Testardi, batton col piede la terra.
Uno scroscio, infine, s'affolla frenetico e urlante.
E' giunto, pietoso, a spegner le fiamme.
A chiuder per una attimo all'inferno la bocca.
Chissà, un'amorevol creatura del cielo ha avuto pietà.

6 commenti:

  1. E' strana questa storia, una storia cruda nei dettagli e a tratti anche nel linguaggio che usi. Ma coinvolge e lascia alla fine con uno strano senso d'indefinito. Una domanda riguardo a quello che vuole raccontare (almeno per me, che lo sai, faccio un po' fatica, a volte, a seguire questo genere di racconti. e' un mio limite , lo so...) Mi chiedo quanto sia da considerare una storia e basta, per il gusto del racconto, quanto sia invece dettata da un fluire di pensieri ed immaginazione partiti da qualcos'altro, o se sia invece un racconto apparentementemente di ordinaria follia ma di ben altra sostanza. Propendo per le ultime due ipotesi...
    E' uno di quei racconti però che si legge tutto d'un fiato, che può anche apparire sgradevole in alcuni punti (nel senso che giunge forte e senza addolcimenti, una realtà amara e dolorosa) ma questo lo so, è l'unico modo per rendere chiaramente questi aspetti della vita.
    Non ti nascondo che leggendo ho avuto come la sensazione che in questo racconto tu abbia voluto inserire molte cose, un miscuglio variegato come variegata è la vita.
    Un abbraccio

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  2. Rispondo qua anche per il secondo commento, che poi sarebbe il primo se ... l'ordine fosse quello giusto.
    Insomma.
    Mi hai confuso le idee anche a me.
    :-)

    No, amica mia, scherzo.
    Certo, sono legati i due racconti.
    Forse ci sarà un seguito, se ne sarò capace.
    Chissà.
    Non riesco mai a prevedere bene questo lato del mio essere.
    Come un mr Haide che sfugge al controllo, che fa quello che vuole.

    I personaggi, la bambina/ragazza/donna e il vecchio/uomo/impotente sono due persone vere.
    Diciamo così.
    Non nel senso che saprei dirti nomi e cognomi o che un'identità ce l'abbiano davvero.
    ma nel senso che li sento di carne ed ossa.
    Per questo il loro raccontarli viene carico di dettagli, realismo, crudezza, forse in qualche punto.
    Ma, Patrizia mia, se parlo di realtà dei personaggi, non posso renderli immuni da quello che ogni giorno leggiamo sui giornali o ascoltiamo in tivvù.
    Essere vivi, essere veri, vuol dire questo, no? O almeno, anche questo.

    Ho voglia di scrivere, in questo periodo, ma ho anche qualche difficoltà.
    C'è una complessità che vuole farsi notare da me, dentro di me.
    Mi dice: beh, si, hai lasciato il territorio quasi-fisico della repubblica indipendente che implicava un rapporto col mondo reale (ricordi le pagine sul mondo, sull'attualità politica o sugli anniversari...), ma non è che così hai finito di leggere/scrivere il mondo per come "politicamente" lo interpreti (nel senso che la visione del mondo che ognuno di noi si dà è sempre frutto di un'interpretazione personale, un propria ... sceneggiatura). Beh quella chiave "politica", ormai l'hai imparato, sta proprio nelle cose, nelle vite degli uomini, nelle storie dei personaggi che vivono dentro di te.
    Ed io gli rispondo: ma, amica, mia così è difficile raccontare, perchè una cosa è dire che "lotti" per un ideale, un'altra è dire, invece, che la lotta sta nel come conduci la vita quotidiana. Ma, addirittura impervio è ricorrere alle vite di personaggi di fantasia per raccontare storie reali. Storie che sono reali perchè stanno dentro di me finquando le scrivo, ma poi passano dentro coloro che le leggono. E solo loro possono dire, in ultima analisi, se le sentono reali oppure no.
    Io, allora, come faccio a scrivere in queste condizioni?
    Ma lei mi risponde: ma mica devi scrivere per forza. Non è il tuo lavoro. Se vuoi, quando vuoi, chiudi. E passa le sere davanti al televisore, come fanno tutti.
    Ed io, amica mia, cosa posso rispondergli, infine? Non fa forse ragione?

    Ecco, sto così.

    Un abbraccio e un bacio.
    Piero

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  3. Un racconto nudo e crudo, ma avvincente come essere tra le spire di un serpente... non ti lascia.
    Ciao Piero.

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    1. Ciao, Paola.
      Grazie.
      Si, nudo e crudo, dici.
      Pocco chiamarlo "vero"?

      Un abbraccio,
      Piero

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  4. Anonimo10:10 PM

    l'aria è immobile in attesa di una tragedia annunciata che non viene mai soddisfatta e il fiato resta sospeso in attesa della fine. Ottimo modo per risvegliare la paura, la rabbia, la disperazione,il desiderio che si compia un atto violento per aver finalmente la soddisfazione di una punizione per quei pensieri malati che ogni lettore rapporta alla sua immaginazione dei fatti quotidiani. Carla Gorga

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  5. Cara Carla,
    Ricevo - un pò da padrone di casa - con vero piacere il tuo commento sul blog.
    Mi piace quello che hai scritto.
    La suspence tiene, dici tu.
    Ed io, che non sono uno scrittore di gialli, prendo come una gran contributo il tuo sentimento.

    Come ho detto in un altro commento, questo post è legato a quello precedente, sono due ... puntate legate allo stesso filo narrativo.
    Chissà, forse ci sarà un seguito.
    Se sarò capace di andare avanti.
    Vedremo.
    Anche questa sarà una questione di suspence?

    Un abbraccio,
    Piero

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I commenti sono graditi