30 mag 2013

INTERROGATORIO

George GROSZ - INTERROGATORIO 


Non si può dire che la nuova vita non  gli facesse bene.
Un regime più ordinato, con cadenze, ritmi e modalità ben collaudati, così lontano dall'abulìa a cui s'era ormai assuefatto.
La sveglia, al primo mattino, quando ancora per il resto dell'umanità il giorno non era ancora sorto.
E poi le docce, certo, minuti contati, acqua fredda o bollente e privacy zero.
La passeggiata in cortile.
L'interrogatorio.
Il rancio.
La branda.
L'interrogatorio del pomeriggio.
L'ora d'aria.
La televisione.
I compagni di cella.
Piano piano s'era cominciato ad abituare.
Aveva anche ricominciato a dormire.
Certo, ancora poco e senza un il vero sollievo del riposante abbandono dei sogni.
Ma almeno, le ore più nere, quelle in cui l'angoscia mostra i suoi denti più acuminati, la sua maschera più orribile, quelle, adesso, passavano in fretta.
Era diverso, lui, dai suoi compagni.
Per loro era una prigione.
La vita dietro le sbarre era una tortura.
Le loro vite ferine e nomadi venivano ingabbiate nello spazio angusto di una cella, asfissiante.
I loro spiriti indomabili di belve selvatiche venivano costretti dietro le sbarre di gabbie da zoo.
I secondini lanciavano i loro ordini bruschi, come i bambini crudeli lanciano le noccioline alle scimmiette dentro allo zoo.
I suoi compagni, i galera, diventavano bestie.
Jordi, invece, era diverso.
A lui, abituato ad una vita informe ed amorfa, l'ordinata organizzazione della comunità, in prigione, sembrava ispirata dalla stessa frugale fratellanza di un convento di clausura, o di una disciplinata caserma.
Un formicaio nel quale ad ognuno era assegnato un ruolo preciso.
Ad ogni attimo della vita era assegnato un ruolo preciso.
Anche il tempo per cacare.
E quello per mangiare.
E sgranchirsi le gambe, e battere le braccia in cortile, e rispondere alle domande del sostituto procuratore, e lavare per terra, e pulire il pitale della cella.
E anche dormire.
Tutto obbediva ad un ritmo perfetto.

Ma per Jordi non era questa la gioia, si la gioia, se non addirittura la felicità più grande che la vita di cella gli procurava senza volerlo.
Si sa, per quel relitto vivente, rifiutato impietosamente anche dal mostro della morte, la vita era un peso insostenibile e grave.
Quello che gli pesava di più, anche se sfuggiva alla sua coscienza incosciente, era quel doloroso compito di dover decidere ogni cosa da solo.
Non si può vivere senza decidere ogni cosa da solo.
In genere è così la vita per tutti.
Una sequenza di atti volontari che determinano lo scorrere dei fatti.
Svegliarsi al suono di una sveglia che una volontà inflessibile ha fissato ad un'ora ogni volta fatale.
Alzarsi e decidere di far colazione con qualcosa che si è deciso di cacciare fuori dal frigo.
Decidere di lavare la camicia o i pantaloni.
Investire energie capitali per stabilire in che ordine mettere le inutili ore del giorno che non passano mai.
E, il più gravoso di tutti i doveri, la più dolorosa delle decisioni quotidiane della vita.
Decidere di por fine al giorno che agonizza da qualche parte laggiù, fuori dalla finestra semi oscurata dalla sera.
Decidere che la sera s'è fatta già notte e che è l'ora d'andarsene a letto.
Uccidere il giorno.
Partorire, tra i travagli, la notte.
E' doloroso.
Doloroso, vivere.
Doloroso come cavarsi gli occhi ogni volta.
In galera, Jordi, di quel peso veniva alleviato.
Era questo a fargli più leggero l'animo, in quei giorni che si potrebbero pure dire sereni.
Poter vivere ad un ritmo stabilito da altri.
Sirene, fischietti, percorsi esatti.
Comandi, obblighi, ordini, prescrizioni precise.
Divieti, proibizioni,  impedimenti e dinieghi.
Una vita senza alcuna libertà a cui dover sottostare.
Una vita, finalmente, senza lacuna responsabilità.
Era la vita ideale, per Jordi.

Come si può immaginare, i soli momenti difficili, per Jordi erano quelli dell'interrogatorio del sostituto procuratore.
Le sue domande erano ogni volta precise, taglienti, circostanziate, chirurgiche, verrebbe da dire.
Asettiche, sanitarie, sterili, oggettive.
Esattamente mirate al cuore del problema.
Acute, puntute, appuntite, acuminate e per questo, laceranti, e urticanti, nella mente e sull'animo del povero Jordi, incapace di individuare un punto preciso al quale attaccare alcunchè, fosse pure uno straccio di risposta che potesse essere ritenuta soddisfacente da quell'omino curioso che si faceva chiamare "Vostro onore" oppure "Eccellenza".
Ogni dettaglio di cui chiedeva conto il magistrato era accompagnato dal rimprovero muto che il torvo sguardo del maresciallo dei carabinieri lanciava verso l'interrogato, seduto davanti al tavolo di legno un pò smozzicato al centro della stanza degli interrogatori, nelle carceri giudiziarie dove avevano portato Jordi, imputato in attesa di giudizio.
Il dolore di Jordi era sincero, in quei momenti.
Lancinante ed acuto.
Il giudice, verso il quale provava una simpatia istintiva ed un rispetto profondo, era un giovane molto curato, dagli abiti eleganti e portati con aplomb ineccepibile.
I colori erano sempre perfettamente intonati, camicia, cravatta ed abito in tinta.
Le lucide scarpe e la cintura dello stesso colore.
Barba curata.
Lisci capelli azzimati.
Il profumo di dopobarba di lusso e sapone ristagnava nell'aria impregnata del fumo stantìo che i secondini spandevano per tutti gli uffici.
Chissà perchè i secondini fumano sempre, anche quando hanno già spento i mozziconi delle loro sigarette puzzolenti.
Per uno che spegne ce ne sono mille altri che hanno in bocca una spina rovente.
E quante sono le migliaia di guardiani, sparpagliati nelle stanze, nascosti dietro gli angoli, appiattati negli uffici, di guardia nei cessi e nelle cucine?
Il giovane procuratore faceva domande pertinenti a quella verità così facile che solo lui, il povero Jordi si attardava ad ammettere.
Glielo dicevano, a lui, i due interroganti solerti.
Guarda, che prima o poi confesserai.
Ti hanno già visto.
I testimoni hanno deposto.
I verbali sono stai composti.
Il giudice ti condannerà di sicuro.
Ma, a parte il sottile piacere che gli dava quest'ultima frase, che per loro doveva essere una minaccia angosciosa, ed invece, per lui, era come un piccolo dono imprevisto, il resto, l'acuminata precisione delle domande, provocava un dolore indicibile.
E non perchè, some sembrava agli inquisitori testardi, lui fosse costretto a mentire per nascondere l'evidenza d'un efferato omicidio di periferia.
Il vero problema, nell'animo sfatto di Jordi, era il buio ch'era calato in quell'attimo, quella sera, sulla balaustra bassa del ponte.
A lui era mancato ogni sostegno, in quel momento in cui aveva perso coscienza.
Non c'era, nella sua mente, una realtà da poter ricordare.
E quindi non c'era neppure una verità da poter raccontare.
Ma a chi poteva andarlo a dire un fatto così?
Chi gli avrebbe mai creduto?

Il dubbio lo assaliva quando ritornava in cella, disfatto.
Dopo l'interrogatorio, al quale, per il vero, non venivano applicati metodi duri, lui era sempre uno straccio.
Gli doleva, sinceramente provava dolore, per non essere in grado di soddisfare la morbosa attenzione che quei due aguzzini, curiosi, mostravano ogni volta nei suoi riguardi.
Non poteva rispondere, come pure avrebbe voluto.
Compativa lo sforzo che quei due evidentemente compivano per cercare d'aiutarlo ad estrarre dalla mente confusa un sia pur pallido ricordo di cosa era accaduto quella notte, laggiù.
La periferia era nera.
Questo lo ricordava bene. 
Nera come la notte.
Solo il biancore gialliccio di qualche fanale sperduto che chiedeva perdono per esser rimasto acceso ad illuminare quel nulla che chiamavano mondo.
Nera era anche la sua memoria.
Una pellicola che non era stata impressionata dalla luce brillante della coscienza.
L'otturatore non era scattato.
Anzi, lui sentiva che la vita l'aveva lasciato, ad un certo momento.
Ed era rimasto solo al mondo, solo davvero.
In quei momenti poteva pure essere morto.
E invece qui due dicevano che c'erano testimoni che avevano visto.
Ma visto che cosa?
La scena di un film lo perseguitava, allora, per alcune ore.
Uno di quei film di serie B.
Sangue, sesso, violenza.
Ed era lui il protagonista.
E poi lei.
La puttana sbrancata dalle sue mani feroci.

"Cosa hai fatto e perchè?"
"Cosa cercavi?"
Lui sentiva il sesso ingrossarsi, quando cercava di ricordare il corpo di quella stretta, inerte fra le sue braccia assassine.
Era eccitato dalla testimonianza di tanta potente forza omicida.
Forse aveva passato delle ore ad infierire su quel corpo che certamente doveva aver lasciato dilaniato sotto al ponte, nell'ombra notturna che s'annera più nera, dove la luce non può arrivare neanche per sbaglio.
Un vero mostro dalle membra d'acciaio.
Un Terminator vendicatore della vita s debito che gli aveva lasciato sua madre in eredità.
Un Rambo di periferia, acre e senza pietà.
Si placava solo dopo, quando il flaccido suo fluido seminale lo lasciva insozzato, ma soddisfatto, in deliquio, a fantasticare sulle sue erotiche gesta da immaginario Siffredi nell'ombra.
Avrebbe voluto aiutare i due pubblici ufficiali a stendere il rapporto della sua confessione pubblica ed irrevocabile.
Ma non voleva prendersi la responsabilità di lasciare a futura memoria una verità di cui, sentiva, mancava la pesante consistenza del ricordo cosciente.
Si sentiva una assassino precario.
Ecco, proprio come quando ti fanno lo scherzo di toglierti la sedia sotto dal culo quando ti stai per sedere, a lui, l'incertezza del ricordo toglieva dalla coscienza la sicurezza fondata d'esser stato, per un momento, almeno, soltanto, l'uomo che ha deciso la vita d'un altro suo simile.
Il gesto supremo restava impigliato nelle secche del dubbio.
La sicurezza d'esser esistito almeno una volta per compiere un gesto assoluto e fatale, d'esser stato mano del destino, autore del grande libro divino, ecco, tutto naufragava nella sua mente, come capita all'ubriaco che si sveglia al mattino, incerto anche d'essere al mondo.
Certo, lui non riusciva a pensare cose così complicate.
Ma nel momento in cui stringeva il suo cazzo, aggrappato a quell'unica solidità passeggera che la vita gli aveva donato in quei giorni così fortunati, ecco, allora, quello che sentiva nell'anima era proprio quel senso d'impotente incertezza su tutto.
Un attimo dopo, fra le mani stringeva un flaccido verme, viscido e vile.
La disobbedienza del suo volubile corpo era la manifestazione della disobbedienza della sua memoria impotente.
Oh, come avrebbe voluto mettere un segno sotto alla confessione di quell'assassinio che, raccontavano, era stato così atroce ed efferato!
Oh, quella sarebbe stata la certificazione della sua forza potente.
La sua attestazione oggettiva d'esistenza in vita.

E, invece, il destino crudele, lo aveva iscritto alla lista dei morti presunti.
A lui rimaneva solo il tempo ristretto concesso a quei poveri proscritti per dimostrare di non esser morti davvero.

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