27 mag 2013

L'ANESTESIA (ovvero DEL PARADISO)

Henry FUSELY - SELFPORTRAIT


Si alzò con la bocca impastata.
Le pasticche per dormire gli facevano sempre quell'effetto.
Non si sentiva però soddisfatto per quelle poche ore di sonno sintetico.
Aveva sete e sentiva la gola secca.
Aveva tardato a prendere sonno.
Il deliquio del sonnifero non permetteva ai sogni di fare quel lavoro che purifica l'anima e distende i muscoli.
Era andato a letto che era già quasi mattina.
Aveva impiegato un'eternità per infilare la chiave nella serratura.
Era restato davanti la porta per molti minuti, come un ladro che non sa come disfarsi di quell'ostile muro di legno.
Aveva bestemmiato in cuor suo contro quella specie di stordimento che gli rendeva difficile ogni movimento, ogni attività che per chiunque sarebbe stata una banale formalità.
Poi, finalmente, sudato per lo sforzo nervoso, s'era buttato sul letto ancora sfatto dalla mattina che non sembrava ancora passata.
Aveva chiuso gli occhi, desiderando solo di addormentarsi velocemente.
Ed era restato al buio, aspettando che il sonno scendesse per avere pietà.
I minuti si dilatavano, nell'attesa.
I secondi sembravano ore.
Il tic-tac della sveglia meccanica, sul piano sporco e impolverato del comodino da quattro soldi, era diventato un battito snervante, il ritmo della catena di montaggio di una fabbrica d'insonnia.
Il cuscino s'era fatto duro,
Il materasso una lastra di marmo.
Il buio aveva trasformato la parte terminale della notte in una stretta bara opprimente.
Aveva preso un bicchiere d'acqua, il barattolino delle pillole, ed aveva ingoiato quel che più non riusciva a ricordare.
Tanto le dosi non gli servivano a nulla.
Con le due pasticche regolari non riusciva più neanche a perdere per un attimo i sensi.
Se la dose che ingurgitava senza neppure stare a far di conto gli avesse procurato una crisi mortale a lui non sarebbe neanche dispiaciuto.
Ed era rimasto a contare il tempo infinito.
La prima luce che filtrava attraverso le finestre dalle ante esterne disconnesse.
I primi rumori sulla strada.
Qualche motore in lontananza.
Una sirena.
Un allarme scattato a sproposito.
Uno sportello sbattuto sotto alla finestra.
Un latrato dal lato dietro la casa, dagli orti rubati al demanio ferroviario.
Il tubare di alcuni piccioni.
Il cinguettìo dei primi uccelli del mattino.
Non era sicuro dell'ordine sequenziale dei rumori, ma certo della loro molestia avrebbe testimoniato senza alcun dubbio.
Non era riuscito a prendere sonno profondamente.
Ogni volta, si scuoteva.
Poi si rigirava.
Sbuffando, sudato, anche se era pieno inverno, si metteva su un fianco.
Poi la semincoscienza lo prendeva per qualche minuto.
Era più una fatica che un sonno ristoratore.
La fatica di tutti gli insonni.

Il mattino era già cominciato da parecchio, per gli uomini, fuori, nel mondo aperto.
Al chiuso, al riparo delle quattro mura, il mondo restava in disparte.
E anche il tempo non contava più mica tanto, là dentro.
La svogliata sveglia sul lercio pianale di fianco al letto non segnava più l'orario giusto da chissà quando.
Per raccordarsi con il flusso dell'eternità gli bastava la televisione, in cucina.
Un vecchio modello a tubo catodico.
Indistruttibile.
Solo i canali principali.
Ma tanto già quelli erano fin troppo chiassosi.
Il ritmo era quello di tutti.
Qualche idiota trasmissione per vecchi pensionati.
Qualche notiziario.
Il quiz serale.
Molti intervalli.
Era la pubblicità che scandiva il tempo.
Lui ormai era capace di riconoscere l'ora del giorno dalla scansione di quei pacchetti di spot che in genere la gente evita di guardare, annoiata.
Lui, invece, restava inebetito, ipnotizzato, fisso a guardare quei piccoli spezzoni di storie, quei minuscoli film nei quali tutto succede in mondi ideali e perfetti, quei microcosmi di perfezione nei quali i desideri diventano così prepotenti da convincere la realtà del mondo a prostrarsi in ginocchio sconfitta.
Non esistevano denaro, rate, conti correnti.
Poteva, se lo desiderava, acquistare, di volta in volta, una macchina di lusso, una fuoristrada, mettere i pannolini per fermare i flussi mestruali che non aveva mai avuto, indossare scarpe traspiranti e improfumarsi nuotando in mari d'intense essenze orientali.
Ma soprattutto poteva starsene lì, per delle ore, a conversare con le sue ragazze preferite.
Viveva storie d'amore complicate e dolorose.
Intrecci sentimentali che neanche nei film più intricati si riuscivano a intrecciare così tanto.
Spesso ne usciva con le ossa rotte e il cuore in pezzi.
Qualche volta, invece, si portava a a casa un trofeo d'amore.
Le donne che amava di pù erano quelle che gli mosravano le gambe negli spot delle calze di naylon fruscianti e setose.
Invece odiava quelle che mostravano il seno a chiunque, davanti alle trasparenze del cristallo catodico.
La gelosia lo faceva impazzire.
Avrebbe voluto farne pezzi qualcuna.
Lo avrebbe fatto volentieri se non fosse stato trattenuto da qualcosa che in fondo all'anima, se un'anima pure ce l'aveva, gli diceva che quelle erano belle creature, che poteva scoparsele a piacimento, tanto erano puttane disponibili sempre.
Aveva paura di restare solo, certe volte.
E allora, si diceva, una di quelle poteva pure andare bene, per una sveltina senza importanza.
La sua preferita era una bruna con la gambe lunghe, sempre seduta su un letto disfatto.
La inquadravano di fronte, un poco dal basso, mostrando le lunghe gambe ben tornite, affusolate e dolci che sembravano lunghe autostrade dell'amore.
Mentre indossava un paio di calze scure che coprivano, man mano che risalivano verso la fonte del suo desiderio, quel tracciato della speranza che si faceva voluttà.
Quando l'ultima sua immagine spariva, inghiottita dallo spot successivo, lui si alzava furioso imprecando a tutto volume contro quei maledetti che gliel'avevano rapita.
E pensava ad avventure straordinarie per liberarla.
Duelli.
Sparatorie.
Atti d'eroismo.
E, infine, vedeva i titoli di coda che scorrevano veloci.
Ma non riusciva mai a capire la fine del film.
Povero Jordi.
Era troppo complicata, la vita reale, per lui.

Comunque, all'oscuro di tutto questo agitarsi dell'animo suo, prese un altro bicchiere d'acqua dalla fontana in cucina.
Si sentì meglio, per un attimo.
Corse in bagno per pisciare.
Aveva ancora il pisello indurito, come gli capitava al mattino, appena dopo la sveglia.
Ma poco.
Non era stata una buona nottata.
E neanche al momento della sveglia, stavolta, aveva sentito la forza della natura farsi strada dentro di lui.
Anzi, sentiva come un senso di morte che gli appassiva in mezzo alle gambe.
Anche il piscio, gli scorse giù un pò molle, finendo per insozzare il pavimento già un pò lurido di suo.
Colazione non ne faceva.
Una vecchia macchinetta per il caffè era rimasta senza carburante da mesi.
Non aveva voglia di comprarne dell'altro di caffè.
Non aveva neanche i soldi, se era per quello.
Si bagnò un  poco la faccia, di fretta, con l'acqua ghiacciata che il rubinetto sputava alla svogliato.
I denti neri non avevano bisogno d'altro.
Erano già pronti così.
Era vestito com'era andato a letto poche ore dianzi.
Non aveva un cazzo da fare.
Stavolta.
Come altre volte.
Come sempre.
La vita è un'inutile rincorsa dei giorni inutili e vuoti appresso ad immaginari sogni pieni di giorni pieni e indaffarati.
La verità è che nella vita non c'è un cazzo da fare.
Si, aveva avuto un lavoro.
Qualche volta.
Certe volte sentiva ancora lo stimolo di andare, uscire, muoversi per cercarsi un'attività, un'occupazione.
Un lavoro, insomma.
Ma era solo il bisogno indotto dalla sua povertà ormai endemica.
Si ricordava i giorni trascorsi mentre lavorava, appresso a qualcuno che gli ordinava "fai questo", "fai quello", "stai attento qua", "stai attento là", "non fare questo", "non fare quello", "non toccare", "tocca", "portami", "lascia stare"...
Insomma una vera rottura di coglioni.
E non riusciva ricordarsi nemmeno una volta che qualcuno lo avesse, non dio ringraziato, ma almeno gli avesse, alla fine della giornata, pagato il salario promesso.
Mai.
Lo avevano sempre cacciato in malo modo prima, accompagnandolo alla porta con calci nel culo e un'intera enciclopedia di bestemmie.
Era difficile passare lunghe giornate così.
Non sempre i suoi amori contrastati scorrevano sullo schermo grigiastro della televisione.
Troppe pause.
In quei lunghi tormentoni davano notizie di sciagure, tragedie, disgrazie...
Oppure futili storie che assomigliavano a tristi romanzi senza fine.
Le mattine erano le più lunghe da lasciar passere così, in attesa che il tempo si consumi ed arrivi l'ora di pranzo.
I minuti e le ore si dilatano in spazi di tempo interminabili.
Sono crudeli.
Iddio si diverte così.
Dalla finestra c'era sempre il rischio che il mondo esterno potesse tentare una sortita fin dentro la sua anima solitaria.
Dalla parete esterna della porta di casa aveva strappato via il campanello.
Era una semplice misura di precauzione, ma aveva funzionato egregiamente.
Nessuno poteva distrarre la traversata della sua piatta giornata, sconfinata ed interminabile, piana e grigia come una lastra di marmo e fredda e incolore come quella.
Non c'era speranza.
Seduto, sulla sedia un poco sconnessa, davanti al tavolo della cucina, fissava il vuoto davanti a sè.
Assorto in chissà cosa.
In un nulla pieno di fantasmi senza forma precisa.
Grumi di coscienza sconclusionata si agitavano e si confondevano con apparizioni fugaci di sogni distratti e sconnessi.
Se non gli doleva la testa era già molto così.

Ma quella mattina non era contento.
La testa, a dire il vero, a dolergli, gli doleva, e pure forte.
Colpi che rintronavano, come una campana.
Chissà che rintocchi, si dovevano sentire in quella vuota cucina.
La solitudine, Jordi, neanche sapeva cos'era.
Un deserto, gli sembrava la vita.
L'arsura ormai gli seccava gli occhi, ed il cuore, come la sete, al mattino, gli ardeva la lingua e la gola.
Stava.
Viveva.
Come un vegetale che soffriva il mal di testa cronico che i sonniferi lasciano ai malati d'insonnia assonnati e depressi.
Era una vita trascorsa negli infiniti spazzi fra un istante e l'altro della percezione.
Un nulla interiore su cui si stampavano, a tratti sconnessi, le immagini di un presente che penetrava dalle porte dei sensi con fare prepotente e borioso.
Un suono.
Un'immagine.
Un lampo.
Un barlume.
Colpi d'ascia sulla sua anima a cui voleva solo staccare la spina della corrente.
Se avesse potuto chiudere definitivamente quelle  porte che non ne volevano sapere di lasciare fuori gli spifferi di un'esistenza sprecata, sarebbe stato finalmente l'uomo più felice della terra.
Era questa, per Jordi, l'idea del paradiso.
Un luogo dove restare al sicuro.
Porte sbarrate sul caos della vita.
Fantasticava spesso di questo.
Pregava dio di dargli questa ricompensa, una volta che avesse  raggiunto il mondo dei più.
Finirla con quella tortura di dare un senso alle cose.
Alle cose che un senso, invece, di loro non ce l'hanno mai avuto.
Sono gli uomini che s'inventano le le storie delle loro esistenze fantastiche e improbabili.
Storie, successi.
Famiglie felici, amori ricambiati, figli, parenti, amici, conoscenti, ficcanaso e sconosciuti.
Storie, professioni, viaggi, luoghi, memorie...
Erano tutte balle.
Invenzioni.
Bugie senza valore.
Cos'era, invece, la vita?
Un susseguirsi di lunghe vuote ore che sprofondano nell'eternità senza neanche accorgersene.
Una catena spezzettata di insulse scene senza movimento nè sonoro.
Bombardamenti di suoni senza senso.
Raffiche e tempeste di dolorosi spasmi del corpo.
Deiezioni.
Desideri.
Inconfessabili momenti di oblìo.
Ecco, la felicità stava proprio in quei momenti di oblìo.
Soddisfatto il corpo in qualche proprio fisico volere, restava, subito dopo, lo sperdimento dell'annientamento.
La mente che aleggia senza meta.
Lo spazio dentro la testa che basta ad ospitare l'essere che non ha più nulla da chiedere.
Si, insomma, il paradiso.
Il vero paradiso...
E, in quella mattina, in cui era più acuto il doloroso senso di vivere, la fortuna si ricordò proprio di lui.
Un torpore incosciente lo abbracciò, portandoselo a spasso in quel vuoto  paradiso terrestre.
E i suoi baci si fecero caldi, quando quel torpore affondò nel sonno profondo.
Fu una forma d'anestesia esistenziale.
Gli fu amputata una intera giornata di vita.
Ma non provò alcun dolore, quella volta.
Neanche s'accorse, al risveglio, che gli mancava, intero, un pezzo dall'anima.

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