24 mag 2013

UNA FERMATA D'AUTOBUS

photo by Pierperrone


Spento il televisore, Jordi rimase solo nella piccola cucina.
S'era fatta sera, ormai, fuori, dietro la finestra.
Fuori, si vedevano solo le file ordinate di luci che salivano sul dorso dei palazzi di fronte.
File a intermittenza.
File fustellate.
Come se i palazzi fossero giochi di costruzione per bambini.
Nella sera il cielo era sparito.
Fuori, neanche una stella.
Una cappa di piombo aveva rubato il cielo, bloccando le via alla speranza, al sogno, anche all'illusione.
Jordi tremava.
Il freddo dell'inverno era entrato in casa di soppiatto, ma poi ci si era stabilito, ci si trovava bene in quella casa così desolata, vuota, trasandata.
Jordi non si curava molto di quel rifugio.
Era solo una tana, selvatica, come una caverna.
E lui era come un orso, selvatico e solitario.
Si alzò lentamente dalla sedia, dopo una lunga pausa, durante la quale era restato immobile, come morto.
Sovrappensiero.
All'inizio era solo un senso di fastidio, una sensazione molesta di disturbo, un disagio che non aveva neanche un perchè preciso.
La televisione aveva esalato l'ultimo bla-bla noioso come al solito e Jordi, stufo e annoiato, con una leggera pressione dell'indice sinistro, aveva spinto il tasto rosso.
La sua liberazione.
La sua arma preferita.
Il colpo che, da killer perfetto, di solito toglieva di mezzo ogni discussione.
Spegnere il televisore era, quasi sempre, una liberazione.
Era come chiudere le porte sul mondo, sbarrare le finestre per evitare che l'uragano che dilaga sulla città sommerga anche quella parvenza di normalità che si appiccica alle cose insignificanti di casa.
Non sempre, è vero, spenta la tivvù, il sollievo liberava Jordi della sofferenza che il mondo, la vita, gli provocava.
Alle volte qualcosa restava ancora impigliato dentro le sue corde, come un tubo di scarico ostruito e rendeva  le serate, solitamente insignificanti ed inutili, dolorose  e tetre.
Era come un vedersi allo specchio.
Si, la televisione, le sue storie, vere o false, era un'intrusione della vita nella sua afasìa permanente.
Era un fantasma che lo scuoteva, spaventandolo, mostrandosi con la sua stessa maschera.
Le storie di assassinio e gli omicidi gli piacevano in particolar modo, lo attraevano.
Forse per il senso di rivincita che, lui immaginava, dovevano provare quegli eroi che avevano saputo ribellarsi all'impotenza in cui erano condannati a vivere quelli come lui, come Jordi.
Ecco, si, lui, quelli come lui, quelli che vivono soli in case buie e vuote come la sua, erano tutti assassini potenziali.
Era l'impotenza d'ogni giorno, l'incapacità di dare un senso alla vita quotidiana, a renderli potenzialmente assassini.
Ed era l'impotenza, l'incapacità di reagire, di scavarsi un qualsiasi destino, ad impedire che quel potenziale di violenza si trasformasse in azione, reazione e morte.
Spegnere il televisore era come sbarrare la strada a quel fiume in piena.
Una diga contro il flusso della marea nauseante degli uomini e della vita.

Allungò la mano e prese un bicchiere sulla mensola.
Aprì con un gesto il rubinetto sollevando la leva dell'acqua fredda.
Riempì e bevve.
L'acqua gli scolò dal lato della bocca e gli bagnò, sotto la felpa pesante della tuta consumata, la camicia già sporca.
Svogliatamente, con uno straccio, sotto la luce un pò smorta della lampada a risparmio energetico, cercò di asciugare il rigagnolo che gli era penetrato fin sul petto, attraversando anche la canotta bianca che portava sulla pelle.
Poggiò il bicchiere nel lavandino di porcellana sbeccato e sudicio e si accese una sigaretta.
Fumava sigarette molto forti.
Posò l'accendino sul piano del tavolo e si mise la testa fra le mani.
Con le palme cercò di tener fuori le voci che lo stavano assordando.
Si sentiva confuso.
La testa era come una carica di esplosivo e quelle voci erano la miccia che bruciava veloce.
Era lo speaker del telegiornale che, con tono cadenzato ma indifferente, enumerava gli eccidi che il mondo faceva finta di ignorare.
Era il politico di professione che elencava i punti di programmi mai realizzati per risolvere gli eterni problemi dei morti di fame, fregandoli ancora una volta.
Era il cantante rock che urlava alla luna le sue ritmate insulse ballate d'amore non ricambiato.
Era il presentatore che incalzava come un martello con le sue domande da quiz idiota il concorrente ansioso e  impreparato.
Era la bella attrice del film d'amore che urlava la sua scenata di gelosia contro un marito traditore e vile.
Era un esercito di altri commedianti che recitavano male la tragedia del mondo.
Ma, soprattutto, erano i fantasmi che solitamente abitavano in fondo alla sua anima, che stasera, si erano messi in testa di dare una festa e di ballare e cantare a tutta birra, facendo un baccano d'inferno che le sue mani non riuscivano a trattenere fuori dalle orecchie indifese.
Con la mano destra prese un coltello, senza neanche accorgersene.
Con un colpo netto si recise il padiglione dell'orecchio sinistro.
Poi, prima ancora di sentire il dolore, con fulmineo gesto da maestro professionista, passò il coltello nell'altra mano e si recise l'altro padiglione.
Il sangue sgorgò come da una fontana a due becchi.
Scorse sporcando dappertutto, gli abiti lisi, il tavolo, il pavimento sporco.
La sigaretta s'impregno subito e immediatamente si spense con uno sbuffo ed una strana fumata malinconica.

Quando riaprì gli occhi si sentiva tutto stordito.
Gli era capitato altre volte.
Jordi era soggetto a crisi epilettiche e quando capitava che in quei momenti perdesse il contatto col mondo, al risveglio non ricordava granchè cosa aveva sentito o provato mentre era svenuto.
Alle volte la crisi era più forte ed era accompagnata da convulsioni che lo scuotevano fino a quasi farlo soffocare, con la bava che gli schiumava dalla bocca e gli bagnava il bavero della camicia.
Ma stavolta il ricordo lo spaventava ancora.
Aveva davanti agli occhi tutto quel sangue.
La sigaretta e l'ultimo sbuffo triste di fumo.
Il coltello con la sua lama ancora affamata.
I lembi di pelle dei padiglioni perduti che non riusciva più a trovare.
La corsa in bagno per cercare la benda e fasciarsi la testa ferita come una mummia.
Il cerotto che non si voleva attaccare.
E il sangue, tutto quel sangue, un mare di sangue...
Riaprì gli occhi, li sbattè un poco, sentì subito sete.
Un sorso d'acqua.
Per riempire ancora il bicchiere doveva riuscire a rialzarsi, prima.
Lentamente ci provò.
Era meglio del previsto.
S'appoggiò un poco alla sedia, poi al tavolo, infine al lavandino.
Bevve.
Era passata.
Ma non lo spavento.
E neanche le voci.
Neanche quelle lo avevano abbandonato.
Tuonavano come una tempesta.
Nella testa il temporale impazzava.
Jordi impazziva.
Poco alla volta, lo sapeva, sarebbe impazzito del tutto.
Lo sapeva, ma non poteva capirlo, perchè la sua mente rifiutava di comprendere ciò che stava gli accadendo.

Prese la maniglia della porta di casa e uscì nel cortile.
La sua casa era una di quei poveri monolocali che danno direttamente sul cortile dei casermoni con le fustellature delle file di finestre illuminate che salgono fino all'inferno del cielo.
Varcato il cancello, si allontanò sul viale su cui vegliavano solerti gli lampioni freddi come torri di ghiaccio.
La fermata dell'autobus, poco lontano, e, la fortuna, il puzzolente mezzo extraurbano che arriva, come un maledetto miracolo.
Nessuno, sull'autobus, solo l'autista annoiato attaccato al suo cellulare.
Il lungo percorso nella sera che sprofondava pian piano nella notte desolata.
Jordi si guardava intorno un poco stodrito.
I finestrini erano coperti da un velo di umido umore invernale.
Il riscaldamento dell'autobus non scioglieva il gelo invernale.
A fiotti, ondate d'un alti caldo, si propagavano da sotto al sedile.
Ma presto venivano inghiottite dal freddo che non aveva mai lasciato l'autobus da quando aveva lasciato il deposito.
Jordi voleva dormire.
Gli occhi gli pesavano e calavano senza controllo.
I segni dell'attacco epilettico se li portava ancora dentro.
Lo stordimento.
La paura.
Il sangue.
Ma le voci, quelle maledette voci d'inferno, non volevano lasciarlo più in pace.
Quando il mezzo giunse alla fermata che dava sul ponte, Jordi schiacciò il pulsante.
Il bottone rosso che assegna il potere.
L'autista alla fermata fermò.
E Jordi pesantemente scese dall'autobus.
Si sporse, guardando di sotto, dal ponte.
Era nero.
Sotto il fiume era stato ingoiato dal nulla.
Il nulla della notte.
Il nulla della vita.
Anche lui venne ingoiato dallo stesso insaziabile nulla.
In un attimo.
Breve come un battito di ciglia.
L'insaziabile nulla del destino era venuto a prenderlo sin lassù, mentre ancora se ne stava sul ponte.
E la notte scura non aveva fatto nulla per difenderlo.
E neanche la città, lì intorno, che neppure si accorgeva di Jordi.
L'autobus lento, lontano, spariva, anch'esso, nel nulla.
Chissà, forse l'autista aveva ancora una fermata, laggiù.
L'ultima fermata.
Alla stazione del "Nulla".



2 commenti:

  1. Forse Jordi amava Van Gogh, forse c'è chi più di altri sente il nulla, forse c'è chi più di altri è ammalato di saudade e certo è che la Roma che presenti nel video (bello) è assai malinconica...forse risente degli anni e dei...papi.
    Buona domenica

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  2. Ciao Paolè,
    la saudade, la nausea di Sartre, il nulla che afferra come una mano di dentro e stringe alla gola, anche se la gente attorno corre indaffarata verso chissaddove, come inseguissero chimere, unicorni, fenici arabeggianti... mentre invece inseguono gli insignificanti istanti che sgocciolano da qualche parte...
    Malinconia di una città troppo bella e solitaria...

    Insomma, Paolè, il riflesso di questa primavera autunnale, no?

    Piero

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