25 giu 2013

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Michelangelo - IL GIUDIZIO UNIVERSALE (particolare dell'affresco nella Cappella Sistina, Roma)



Non so perché ma nella cella mi sento bene.
La certa consistenza delle mura, solide e spesse, mi protegge. 
Non ho mai avuto una casa così sicura.
Il vento gelido dell'inverno, come un rapinatore entrava da sotto la porta di casa mia, là, ai limiti del bosco, sù, in montagna, lontano dal paese, dove finisce il mondo degli uomini e comincia quello delle bestie.
E l'umido s'introduceva di soppiatto attraverso le finestre divelte, che non avevano neanche scuri e vetri o attraverso le pareti della vecchia catapecchia rabberciate alla meglio.
Era naturale avere freddo, là, nel buio delle lunghe notti senza luce, come avere paura per le colpe non ancora commesse e le condanne non ancora scontate.
Erano spazi vuoti,  le stamberghe dove ho passato lunghi inverni ed estati secche ad aspettare, senza avere alcuna difesa, che accadesse finalmente qualcosa, che il destino di un pover'uomo senza virtù si compisse in tutta la sua crudele indifferenza.
Più che una casa, era una trappola.
Più che un rifugio, un luogo di espiazione.
La cella é certo un luogo rassicurante.
Qui, non può accadermi niente.
Qui, il pericolo viene lasciato fuori da quella porta pesante.
Vivo protetto da un numero infinito di sentinelle, una dietro ogni porta che mi separa dall'uscita della prigione! 
Neanche il re, nel suo meraviglioso palazzo reale, ha tanti secondini a montargli la guardia.
Si.
Certo.
Anche qui, si può dire, il freddo e poi le malattie e la fame...
E le bestie notturne, gli scarafaggi, le cimici, i pidocchi...
Ed anche gli interrogatori, continui, si, e le torture quotidiane...
Ah, quel maledetto Inquisitore!
E le sue crudeli tenaglie, le braci roventi, le corde che segano la pelle, le botte che spezzano le ossa...
E le catene, che pesano più dei peccati che mi vorrebbero far confessare...
Si anche qui, non si può dire che la vita per un povero morto di fame sia proprio una passeggiata.
Ma un povero cristo, uno come me, uno nato senza un nome e senza un padre, uno che non ha mai potuto esibire i segni di una protezione o di un nobile patrocinio, uno senza mestiere, uno nato schiavo, legato per sempre alla terra del suo padrone come l'albero di un bosco di montagna, uno condannato a vivere di espedienti e soggetto alle volubilità degli uomini e delle stagioni, uno così, qui, in cella, uno come me, che cosa ha da temere più di quanto non abbia da temere là fuori?
Qui, dentro, almeno, a ben vedere, il pericolo lo si può  riconoscere facilmente.
Porta la divisa con i pennacchi e gli alamari.
Si fa annunciare battendo forte alla porta.
E quanto è solida, quella porta benedetta!
Nessun mostro potrà abbatterla mai.
Qui, dentro la cella, di notte, di fianco al mio giaciglio, i fantasmi non possono entrare, non mi possono  puntare il coltello al collo per rubarmi l'anima.
Quelle creature spaventose devono restare fuori da questa porta di legno pesante sorvegliata da frati generosi e vigili che pregano per la mia anima e che con le orazioni che alzano al cielo di continuo sudano e faticano soltanto per redimere la mia vita, piena di colpe e di peccati.
Ci pensano loro a tener fuori tutte le cattive creature che abitano le lande desolate della notte.
Loro devono vigilare, di notte, mentre io, in pace dopo le fatiche della lunga giornata, me la dormo della grossa.
Loro devono lottare per me, duramente, mettendo a rischio le loro vite e le loro anime pietose, per impedire che i demoni cattivi li deprivino del bottino della mia anima.
Sono loro che ogni notte, cupa e tempestosa, devono montare per me la guardia, neanche fossi diventato il più prezioso dei tesori di questa terra.
La porta solida sta sempre lì.
Io la guardo, ogni volta che sento il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di saldo.
Sta sempre lì, sui suoi cardini arrugginiti e cigolanti.
Se ne sta fissa per ore, con il catenaccio serrato, la serratura ben stretta.
Se ne sta ferma, immobile, fissa, custode della mia incolumità e vedetta contro ogni pericolo, per ore ed ore, giorni, mesi, anni, secoli.
Sta lì per sbaragliare l'eternità, che lentamente, scorre, fuori di qui, consumando le cose ed il mondo.
Lei se ne starà lì, lo so, per sempre.
Vigile ed attenta, premurosa, caritatevole, benevola e protettiva. 
Come la porta di un tempio.
Ed io, qui, venerato come un dio. 
Porto addosso il mio camice come una tunica sacra.
Le mie mani sono incatenate in un gesto di preghiera eterna a cui Dio  potrà sottrarsi ed alla quale Egli dovrà, presto o tardi, decidere di sottomettersi.
Mai.
Mai prima d'ora, a pensarci bene, la mia posizione ha avuto tanto rilievo per l'amministrazione della società.
Qui, ora dovrà quindi precipitarsi il medico, se mi ammalo, o il confessore, se grido che voglio mondare la mia anima dal lordume dei peccati, o il giudice inquisitore se bisbiglio nell'orecchio ad una guardia ubriaca che voglio raccontare come avvenne quel certo fatto in quella lontana città...
Accorrerà ai miei ordini anche il boia, se decido di confessare tutti gli stupri o gli assassini che ho perpetrato nei miei giorni là fuori.
E, subito, appresso a lui, correrà, attaccato alle sue sporche braghe di tela, anche il becchino, perchè neanche ad un impiccato potranno negare una sepoltura, là, nel camposanto, là fuori.
E come spalerà, solerte, e morto di freddo, in una gelida alba d'inverno, il povero beccamorto, mentre io, a quell'ora, me ne starò beatamente addormentato a fare altisonanti sogni di gloria.
E dovrà darsi da fare anche quel presuntuoso che abita in chiesa, per aspergere il mio sudicio corpo con la sua puzzolente acqua benedetta, perchè anche d'un condannato a morte devono avere pietà.
E anche il Principale.
Si anche Lui.
Anche il Datore di lavoro di tutti.
Anche lui, questa volta, dovrà obbedire ai miei ordini.
Si dovrà sbarazzare delle sue moltitudini di angelici cori e montare in fretta il palco per il mio giudizio finale.
E sfogliare le pagine del suo Libro gravoso per leggere il breve capitolo che vi fu scritto per me.
E infine, dovrà spiegarmi perchè, avendomi messo al mondo per Sua insindacabile scelta, a me sia sia stata assegnata la grama parte dell'ultimo dei derelitti.
Si, io gli chiederò il conto.
Sarò impietoso e inflessibile.
Come Lui lo è stato con me.
E, alla fine, a Lui non resteranno difese.
Mica vive, come me, Lui.
Dietro una solida porta di quercia!

3 commenti:

  1. Ci trovo tantissimi temi in questo racconto, alcuni più evidenti, più immediati, altri più sfumati. Quasi dei segni, lanciati lì, per indurre riflessioni.
    La prima parte: la paura del mondo, che tutti abbiamo credo, chi poco, chi tanto...Paura che può essere dovuta a tante cose e che qui tu descrivi con immagini molto crude. Quelle di una vita che non è vita ma sopravvivenza, una vita talmente difficile da far preferire la mancanza di libertà, da far apparire una cella come un rifugio. Una vita forse piena anche di sensi di colpa, di rimorsi e anche da quelli la cella protegge. Il carcere, immagine dell'isolamento e dell'esclusione, come paradossale protezione da un mondo che costringe ad essere come non si vorrebbe, il carcere come sollievo?

    Mi ha colpito molto anche quella frase: "qui almeno il pericolo lo puoi riconoscere"
    E' vero, prerogativa che il mondo non ha quasi mai. Ma lo può fuggire? Lo può affrontare? Può in qualche modo quel povero cristo, sottrarsi alle azioni malefiche che quel pericolo riconoscibile aguzzino, perpetua?
    Istinitivamente mi viene in mente quella frase: "si può imprigionare la carne ma non il pensiero"
    e un altro rimando alla figura di Alekos Panagulis che quasi murato in una cella scriveva poesie con qualunque mezzo gli capitasse sotto mano, per non morire.
    E i bambini di Terezin che aspettando inconsapevolmente la morte in un ghetto, diegnavano, scrivevano storie e poesie.

    Lo so ho divagato, ma ti dico quello che ha riportato alla mente il tuo scritto...

    E poi grandiosa, la parte seguente. Quasi una vendetta... La volontà di trovare qualcosa di giusto anche nel male, un riscatto in qualche modo, verso il mondo e verso dio.

    Sono solo semplici pensieri eh? Prendili per quello che sono...

    Un abbraccio :-)


    [vid-4:3]http://http://www.youtube.com/watch?v=B7fVuQadB40 [/vid]


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  2. P.S. Ho provato ad inserire un video ma...mi sa che ho sbagliato qualcosa :-(
    comunque era La ballata degli impiccati di De Andrè (altra cosa richiamata alla mente dal tuo scritto

    ci riprovo?

    [vid-4:3]http://www.youtube.com/watch?v=B7fVuQadB40 [/vid]

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  3. Cara amica mia, grazie, intanto per il regalo. Per adesso non si riesce a vedere quassù il video (ma l'ho copiato e posso vederlo su youtube direttamente. Come dicevo a Paolone nell'altro post, ho provato, sto provando a vedere se si risolve in qualche modo il problema. Vedremo.

    Questo racconto - che esce sotto l'etichetta del Vangelo II P. - è nato ieri, nel ... giardino delle fate.
    Ti ricordi? Ogni tanto le mie passeggiate mi portano lassù, nel giardino chiuso, sopra l'Aventino. Quello piccolo, a fianco al giardino degli aranci, più famoso. E' un piccolo giardinetto con il vialetto di breccioline e alcune aiuole con delle piante fiorite, delle bouganville molto belle, che si arrampicano sul muro di cinta, alto, a destra e sulla parete della chiesa di S. Sabina, a sinistra (o e S. Alessio? non sono sicuro).
    Sulla parete di ondo, si apre il paesaggio romano, l'orizzonte, il cupolone, la città, il fiume...
    Quel contrasto fra le pareti costrittive e la fuga nell'infinito dell'orizzonte romano (che col cupolone diventa anche un infinito metafisico) è straordinario, una provocazione. Come il fascino di certe donne, quelle di classe, che nascondono molto e mostrano poco le proprie grazie, ma proprio in questo negare e concedere riescono ad essere come miraggi di cui non si può che innamorarsi...

    Ecco, un poco questo racconto è uno di questi miraggi.
    Non con la gonna al ginocchio.
    Ma in quella porta, in quel dentro e fuori, in quel morire e non morire, c'è la tensione fra il dentro ed il fuori del personaggio che può vivere in cella sentendosi al sicuro.
    Perchè la sicurezza è un sentimento, a cui non si comanda, come anche il terrore e la paura.
    E lo so che un prigioniero sotto le grinfie dell'inquisitore, in cella, ai ceppi, dovrebbe maledire il suo torturatore, non baciargli riconoscente la mani.
    Ma, mi pare che il racconto sia reale e sincero nel descrivere ... il miraggio, il fascino che può derivare da una porta che chiude il passo alla paura. Anche se quella porta è la barriera che separa dalla liberta e, in fondo, anche dalla vita.
    Ma, come dici tu, il poeta non può essere preso/tenuto prigioniero in nessuna cella.
    Lui evade.
    La sua libertà è nella sua testa, nel suo cuore.
    Come la libertà dei bambini di Terezin.

    Mi ha commosso questo tuo riferimento.
    Ha dato al mio racconto (nella mia testa, alle volte un pò presuntuosamente volta all'autoindulgenza autoriale) un risvolto forte, potente, vero e anche di lotta (che per me è il massimo).
    Ma mi ha commosso perchè i bambini in quel campo erano prigionieri e forse non sapevano di dover presto morire.

    Ma il finale ce l'avevo dentro da parecchio tempo.
    Il giudizio universale, era esattamente questo il tema che volevo trattare.
    Nel modo e nelle condizioni in cui l'ho fatto qui.
    Ma mi mancava una base credibile, un impianto del racconto che rendesse plausibile la mia eretica interpretazione umana.
    Volevo mettere sotto processo il Giudice Supremo.
    Si.
    Ma come farlo, amica mia, senza cadere nel banale? O nella stupidità?
    Ecco, qui, questo giudizio universale alla rovescia, sta al posto giusto.

    Un bacio, amica mia e, sempre davvero grazie. Le tue osservazioni sono, per me, un vero regalo. Hai per me troppa indulgente pazienza.
    Sei la mia cara Patrizia!

    Piero

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