21 giu 2013

FIABA DEL CAVALIERE VITTORIOSO

photo by Pierperrone


Abbassò gli occhi indirizzando lo sguardo intenso e profondo verso l'immenso spazio che si spalancava lì davanti.
Rimase immobile in quella posizione a lungo.
Il tempo, breve, o lungo, non si seppe mai, si fermò, quasi, interminabile.
Fu un tempo che non conobbe misure, ostacoli, barriere, limiti...
Fu un tempo che sembrò non dovesse avere mai fine.
Fu, quello, tutto il tempo possibile, tutto il tempo che si può avere a disposizione per effettuare un'esplorazione accurata dello spazio sconfinato che aveva dinanzi. E sotto. E intorno...
Ebbe tutto il tempo che aveva richiesto.
Ebbe tutto il tempo necessario.

Lo sguardo penetrava aguzzo e acuto nello spazio circostante che non opponeva resistenza.
Anzi, sembrava che lo spazio non stesse aspettando.
Sembrava che non avesse altro desiderio che essere accarezzato in profondità da uno sguardo coraggioso. Si mostrava così com'era, nudo fin negli intimi recessi, felice di offrire alla vista le intimità più nascoste.
Era un tempo che scorreva come un fiume indifferente.
E pigro.
Era un tempo paziente, accurato e preciso.

Ebbero l'intera notte senza fine.
Fu tutto il tempo necessario.
Trascorse tutto il tempo che occorreva.
Quegli occhi tondi e neri e la disponibile pianura dello spazio senza limiti portarono fino in fondo, dolcemente, l'amplesso esplorativo che avevano desiderato tanto a lungo.
Fu un dolcissimo atto d'amore.
Abbracci e carezze unirono i loro corpi.
Lo sguardo acceso e febbrile esplorò con le sue dita di fuoco ogni centimetro delle valli e dei monti di quello spazio aperto, che dolcemente, spontaneamente offriva la sua natura, grata e accogliente.
Il gesto di conoscere che compivano quegli occhi infuocati di passione fecondava il nulla confuso del caos su cui cadeva la pioggia di luce che proveniva dagli astri remoti dell'universo.
L'oblìo dell'incoscienza si denudava senza pudore.
Offriva il proprio corpo tumido e disponibile al martirio della conoscenza, alla parola, al racconto, al ricordo, alla memoria ...
Entrando nel regno sconosciuto della memoria, nasceva il tempo d'amore delle cose e finiva quello tirannico del nulla.

C'era stato un altro mondo, prima.
C'era stato un mondo conosciuto dagli occhi di tutti, prima della caduta, crudele, dell'oblìo su quel mondo.
C'era stato un universo fatto di infiniti minuscoli universi perfetti.
Era stato il mondo minuscolo delle cose.
Fatto di eco-sistemi perfetti e coerenti, di oggetti più grandi e più piccoli, perfettamente integrati e coniugati, Un mondo oggetti utili, tutti invariabilmente necessari, tutti indispensabili allo svolgimento di qualche funzione.
Erano tutti composti d'infiniti dettagli, di particolari che a prima vista potevano apparire insignificanti, ma che, pure, invece, erano fondamentali per tenere unito in un insieme unico il microcosmo microscopico di ogni cosa.

Era stato il tempo delle cose.
Lo sguardo degli uomini era stato minuzioso in quel tempo.
Con cura, il gesto degli occhi estraeva meticolosamente dal groviglio del creato indistinto, le cose, una per una.
Si compiva, quel gesto, con straordinaria attenzione e maestrìa, con professionale competenza tecnica ed accurata precisione.
Era un processo di lucida razionalità che dava vita alle cose con la meticolosa precisione di una madre che, nel proprio grembo generatore, gestisce la ripartizione ordinata delle cellule embrionali, che vigila su ogni successiva generazione di frammenti di vita preordinando e programmando ogni successiva mutazione cellulare in modo da assicurare la perfetta composizione dell'organismo che, alla fine del processo, viene messo al mondo.

Allo stesso modo, lo sguardo estraeva le cose dall'indistinto nulla.
Prima lo fecondava con il vivido liquido seminale.
Poi, via via, governava il processo evolutivo delle cose.
Ordinava ogni dettaglio.
Particella per particella.
Seguendo un disegno esatto, attuando un progetto unitario e coerente del tutto.
In quel modo ad ogni cosa era assegnato un posto fisso e definito, una regola fissa di comportamento, una legge eterna di funzionamento.

Non si sa perchè, ad un certo punto si pensò di dare un nome a quello sguardo creatore.
Si fecero ipotesi su ipotesi.
Finchè fu scelto un nome ritenuto altamente significativo.
Dio.
Piano piano si decise che una creatura fantastica e perfetta, onnipotente e suprema, dovesse nascere ed avere una vita sua propria, una propria volontà, un proprio disegno ed un obiettivo definito secondo il proprio libero ed incondizionato arbitrio.
Si pensò anche che dovesse avere un'estetica ed una morale.
Insomma si decise di assegnare un Destino alla forza creatrice pura e assoluta.

Non si sa perchè quella decisione fu presa.
Nè si sa da chi fu effettivamente presa.
Infinite generazioni di sguardi sono passate nel frattempo.
E nessuna volontà divina è riuscita a mettere ordine al caos che si cela in quello spazio amniotico e ancestrale.
Lo spazio, anzi, dinanzi ad ogni gesto creativo, ad ogni volontà di ordinamento, dinanzi a ciascuna delle innumerabili generazioni di curiosi sguardi vivificatori, anzichè ritirarsi, restringersi, o almeno diventare poco a poco più angusto e familiare, s'è fatto sempre più impenetrabile, intricato, vasto, ampio, sconosciuto, ostile, dilagante ...
Come alimentato da un'opposta forza creatrice, divina e uguale, ma di segno contrario, come il bene si contrappone al male, più il gesto creatore del dio degli uomini cercava di far suoi i possedimenti della conoscenza, più quella sprofondava in anfratti inaccessibili, correva a nascondersi, retrocedeva come ricacciata da una forza occulta ...

Lo sguardo a cui era stato dato il nome di dio ed un destino da realizzare, la missione creatrice da compiere a spese dello spazio si rivelò un vero fallimento.
Non solo al procedere dello sguardo-dio, che avanzava inesorabile come sospinto dalla carica di mille e mille cavalieri crociati, l'altro, il terreno di conquista, lo spazio caotico, la terra santa, retrocedeva, si sottraeva, si inabissava nelle tenebre e nell'ignoto.
Accadeva anche che là dove quello sguardo-dio si posava rapinoso imponendo la sua verità, da ogni presupposto di quella verità germinassero mille e mille radici eretiche ed eterodosse, affette da devianze ed eterodossie che minavano ogni appoggio e creavano inciampi e catene ed inganni che immediatamente restituivano all'oblìo ciò che era appena stato sottratto al vuoto.
Così andò avanti il tempo per un'eternità buia ed oscura.
Così, nessun uomo provò a misurare il tempo in questa era di tremenda barbarie.

La stanchezza sopraggiunse, ad un punto, come una nebbia grigia.
Calò come una cortina fuliginosa, un velo pietoso, una polvere sottilissima forse cosparsa da generose divinità sovrannaturali nascoste nell'ignoto che s'inabissava sempre più profondamente nel nulla.
Si nascondeva lo spazio a quell'incedere prepotente dello sguardo per far cessare la violenza del Destino.
Si frapponeva, fra l'uno e l'altro dei contendenti della guerra santa, la dimensione del vuoto, dell'esser nulla del senso, della mancanza di realtà e di significato.
Le cose che apparivano per un attimo sotto la luce dello sguardo-dio scomparivano subito dopo nel nulla dello spazio tenebroso.
Restavano echi cupi che rotolavano come tuoni nel cuore delle nubi nere che avvolgevano l'intero mondo del visibile e dell'immaginario.
Saette di fuoco ogni tanto dardeggiavano sinistramente in lontananza, segnale di un'ostile resistenza, di una ribellione che si organizzava per vendicarsi dello stupro che veniva perpetrato di attimo in attimo contro quella natura indifesa ed innocente distesa per l'intera immensità degli spazi.

La stanchezza, fortunatamente, la nebbia, la coltre di nuvolaglia, ebbero l'effetto, con il passare del tempo e il mancato accumulo della memoria, di far cessare quello scontro titanico che si stava preparando nelle profondità della coscienza.
Lo sguardo-dio dimenticò la ragione del suo indagare appropriativo.
Gli uomini cessarono di chiamare dio al loro banchetto.
Lo spazio smise di nascondersi.
Il tempo, quindi, poco a poco, divenne padrone del mondo.
Cominciò la sua era.
Lì, sul limitare della faglia che divide il mondo del giorno, in cui vive la fiera dello sguardo, da quello della notte, in cui si nascondono i sogni che sfuggono ad ogni conoscenza.

Il tempo.
Cavaliere solitario e indomito.
Trionfatore di ogni tenzone.
Fiero cipiglio.
Occhi di ghiaccio e cuore di fuoco.
Là, sul limitare del dirupo, ora, si sporge vincitore.
Stava lì da intere eternità, eoni di secoli, ere e generazioni.
La testa voltata di fianco.
Aveva abbassato lo sguardo, prima di trafiggere con i suoi occhi il piano che si distendeva ai suoi piedi.
Occhi che erano penetrati nel grembo della natura per ingravidarla.
Occhi che ebbero prole numerosa e formicolante.
I giorni.
Le ore.
I lunghi istanti senza termine che abitano nelle caverne del cuore...
E ora, lui, padrone e vincitore, se ne sta lì.
Governatore del tutto.
Inesorabile padrone.
Tiranno e generoso.

6 commenti:

  1. La sua solitudine mi sgomenta, povero Zeit.

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  2. Ciao, Paolone.
    Grazie per la visita.
    Beh, i vincitori spesso restano soli, no?
    Un abbraccio,
    Piero

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    1. No, i vincitori all'apparenza vedono aumentare la compagnia (ma non nel senso di Silone). Io parlavo del Tempo, ho usato Zeit apposta per l'assonanza sonora con Zeus. Ciao

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    2. Io penso realmente che spesso i vincitori restano soli.
      Si, è vero, si deice che la vittoria ha sempre molti padri, e si dice anche attaccarsi al carro dei vincitori.
      Ma secondo me capita spesso che chi vince un'impresa gradne poi finisce per restare solo con sè stesso.
      Chi si aggrega al carro dei vincitori per lo più è ipocrita e interessato e viene ben accetto soltanto da vincitori di basso profilo, quelli a cui piace circondarsi di yesmen e lumacosi cortei di baciapile.
      Sono parecchi, questi, certo.
      Ma non sono i veri vincitori.
      Sono perdenti, solo che hanno grande paura ad ammetterlo.

      Io in questa categoria metto anche - benchè qui non c'entri nulla con il racconto - mr B, l'ex premier italiano.
      Lui è povero cristo, un fallito, un frustrato, uno che ha bisgno di farsi cantare le inni di lode sennò poveretto si scorda anche di esistere.
      Mi fa quasi pena, certe volte.
      Me lo immagino quando si vede allo specchio e si spaventa.
      Meno male che dietro di lui ci sono sempre Bondi o Bonaiuti a rincuorarlo a cantargli le canzoni di consolazione...
      Ma che tristezza, la vita di quel pover'uomo.

      Zeit, il tempo.
      Non avevo colto l'assonanza con Zeus, è vero.
      Ma non era proprio facile!
      Un abbraccio, Paolone!

      Piero

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  3. C'è la nostra storia dentro questo racconto, almeno così credo d'aver compreso. Il finale mi pare, non preveda la nostra presenza. Tutta sarà come prima, niente sarà come prima... non so perchè ma d'istinto mi è venuta in mente questa frase.
    E ci ritrovo la natura umana, curisa, avida di conoscenza, potenzialmente e concretamente capace di modificare le cose, ma anche gonfia di presunzione...
    L'eterno tema, quello che so, ti è molto caro: il bene e il male, la luce e il buio, cio che siamo, ciò che vorremmo essere, ciò che forse saremo...
    Ciao :-)

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  4. Si, cara Patrizia.
    Siamo qualcosa di complesso e mutevole.
    Siamo parte del mondo, della vita, che si muovono e mutano in continuazione.
    Noi solo per comodità crediamo che tutto stia fermo, che resti immutabile, che sia a nostra completa disposizione...
    E presuntuosamente crediamo addirittura che la nostra identità sia qualcosa di definito, come la nostra vita.
    Crediamo di poter affondare lo sguardo nelle cose - siano lo spazio, il nostro cuore, la nostra vita, gli altri che ci circondano - e pensiamo che ciò ci aiuti sempre a capire, a dare una definizione delle cose, a dargli un nome, una funzione, uno scopo...
    E se invece la vita fosse qualcosa di molto più libero?
    Qualcosa che assomiglia ad un continuo equilibrio fra forze che si contendono il campo.
    Capire e non capire: lo sforzo, l'equilibrio, la lotta.
    E' così per ogni cosa.
    Solo le convenzioni che per comodità ci diamo ci aiutano a tenere stabile - e quindi in prigione - lo scorrere del mondo e della vita.

    In fondo "panta rei" è il senso più preciso di questo racconto.
    Solo che c'è anche la possibilità dell'imprevisto, dell'incompreso, dell'improvviso, dell'intromesso, dell'indesiderato, dell'interferenza, dell'imprevedibile...
    Il caso, la sfortuna, la fortuna, la coincidenza...
    E, soprattutto, l'incombere dell'incompreso, dell'ignoto, di ciò che sta fuori dal nostro campo visivo, fuori dalle nostre convenzioni.
    Per i Maya, questo furono gli spagnoli di Cortes, o i bacilli del raffreddore che li sterminarono.
    Per me, il cavaliere vittorioso è il tempo.
    Una specie di conquistador in corazza che cerca l'Eldorado.
    Lo avrà trovato?
    Chissà.
    Ubn'altra volta, forse, esplorerò quel lato del mondo.

    Un abbraccio
    Piero

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